STORIE EREDITARIE DI ANIME SLAVE


 

 

Il giorno seguente al debutto del Teatro Valle di Chiaravalle, la sala del Teatro Politeama di Tolentino ha prestato la sua eccellente a acustica alla FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana, diretta per l’occasione da Massimiliano Caldi, impegnata in un programma accattivante e coerente, presentato con il titolo Anima Slava e focalizzato  su creazioni provenienti dal poliedrico universo russo. Gli autori scelti sono due tra le menti melodiche più vulcaniche e popolari scaturite in quest’area orientale del nostro continente, capaci di affermarsi con unanimi consacrazioni internazionali dal punto di vista del pubblico, seppur gran parte degli addetti ai lavori non è stata altrettanto generosa. Stiamo parlando di Piotr Ilyich Čajkovskij,  che ha coniugato con gli strumenti del suo genius loci la rassicurante disciplina classicista, e di Sergiei Rachmaninoff, che in concomitanza del suo diploma moscovita, riceveva dallo stesso Čajkovskij un plauso di inatteso entusiasmo, visto che il personaggio non era uso abbandonarsi a tali testimonianze di stima. 

Forse Čajkovskij intuiva già che il giovane collega stava per essere morso dal desiderio di ereditare la sua sensibilità musicale, indirizzandosi verso un itinerario fatalmente inattuale nel nascente secolo breve con le sue febbrili rivoluzioni musicali. Aveva colto nel segno e oltre ad aderire a un cajkovskismo più mentale che sostanziale, alla sua morte avvenuta nel 1893, il ventenne predestinato gli dedicò il secondo Trio Elegiaque Op.9. Quindi il taglio del concerto può anche essere letto come la storia di un’eredità che incarna l’anima slava nella sua sanguigna coniugazione russa e nel succedersi di due generazioni:  la prima che ha agito nel secondo ottocento, rappresentata dalla Serenata in do maggiore Op.48 di Čajkovskij; la seconda in piena azione a cavallo tra il diciannovesimo e i primi quarant’anni del ventesimo secolo, con Il monumentale Concerto n°2 per pianoforte Op.18 di Rachmaninoff. 

La Serenata in do maggiore Op.48 è stata licenziata nell’estate del 1880, quando l’autore si trovava in Ucraina e, accantonando la sua inflessibile severità autocritica, scriveva al suo editore di essere “follemente innamorato di quest’opera”. Congiuntamente in una delle lettere alla sua benemerita mecenate Nadezhda von Meck entrava nel merito estetico, confessando come il primo movimento della serenata, sviluppato in forma di sonata, ma prudentemente indicato dall’autore con il termine “sonatina” (forse per via della sua sezione di sviluppo troncata), fosse un “omaggio a Mozart”. Un secondo passaggio di quella missiva è ancor più compromettente rispetto al suo legame con il classicismo di Mozart: il movimento in questione intendeva “essere un'imitazione del suo stile”. 

A questo proposito va sottolineato che sia il titolo che la struttura del brano riprendono l’equilibrio e il fascino delle serenate composte dal suo idolo austriaco, tra le quali figura la celebre Serenata in sol maggiore, sottotitolata “Eine kleine Nachtmusik”, e orchestrata per archi proprio come quella di Čajkovskij. Tuttavia l’autore russo anche in questa circostanza si svincola dal suo amato modello, ricorrendo alle armonie lussureggianti e strazianti caratteristiche del suo linguaggio. Armonie ideali a esprimere il suono voluttuoso degli archi che lo distingueva e che è emerso alla perfezione dalla guida puntuale di Massimiliano Caldi. Con gesto preciso e appassionato la sua direzione autorevole ha trasmesso all’orchestra tutti i dettagli necessari a cogliere l’eleganza di una partitura delicata per via delle sfumature diverse che caratterizzano le articolazioni interne ai quattro movimenti e diversificano la loro natura. 

Il primo movimento suggellato dal marchio del classico, è introdotto da un audace corale dall’andamento discendente su una pulsazione di andante ma non troppo che slitta in un allegro moderato, vivace e aggraziato come certe partiture per balletto di Čajkovskij. E a questo proposito è necessario ricordare che la fortunata diffusione della Serenata che abbiamo ascoltato a Tolentino è dovuta a George Balanchine, il grande coreografo che nel 1934 usa questa musica per il primo balletto da lui creato negli Stati Uniti e intitolato con insuperabile fantasia Serenade. Questo pensiero danzante che Čajkovskij ha coltivato con una maestria senza pari, si fa palese nel secondo movimento molto dissimile dal primo. Se anche in questa parte avesse voluto riecheggiare una presumibile soluzione mozartiana, la sua scelta sarebbe inevitabilmente caduta su un maestoso minuetto: invece il suo disegno si orienta verso la leggerezza esuberante di un ottocentesco valzer viennese. 

Con la sua ammirabile abilità di orchestratore il compositore lo fa fluttuare aereo e impetuoso, riprendendo la desueta forma di rondò e costellandola di frequenti spostamenti armonici spesso improvvisi, mentre le diverse voci dell’orchestra vengono impiegate in una sorta di disinvolta conversazione. Nel terzo movimento la brillantezza del valzer lascia spazio al tipo di scrittura diretta, emotiva ed estremamente lirica per cui Čajkovskij è celebre. I colori sono quelli melanconici e onirici dispiegati in un corale evocativo: un commovente lamento elegiaco dall’aura antica che si annida nell’ambiguità tonale annunciata immediatamente con l’instabile sensualità del primo accordo. Caldi e l’orchestra sono perfetti nel sottolineare la spirale di tensione in cui è proiettato questo tema, con un crescendo vigoroso appoggiato su un pedale di dominante. 

E particolarmente efficace è l’intenzione dell’orchestra nell’affrontare la risoluzione che fa svanire l’elegia sugli armonici degli archi, salendo nel registro acuto per conferire una lucentezza quasi spettrale all'ultimo accordo di re maggiore. Il quarto movimento che a differenza della forma sonatina del primo, segue una forma sonata completa includendo una sezione di sviluppo, emergere decisamente l’anima slava fino ad ora rimasta sotto traccia. Čajkovskij lo trasmette costruendo questo movimento finale intorno alla lontana citazione di due motivi della musica popolare russa che aveva incluso in una sua raccolta di cinque arrangiamenti pubblicati nel 1869. 

Il primo di questi temi sembra sia pensato in continuazione con il climax del movimento precedente, tanto che all’inizio per gli archi è previsto l’uso della sordina che smorza la brillantezza del suono. Ma il nucleo dell’intero movimento si svelerà in netto contrasto a questo primo episodio lirico e riflessivo, sprigionando il suo vivace carattere pittoresco con l’ingresso del secondo tema popolare dal profilo danzante e vorticoso, indicato in partitura con la dicitura “allegro con spirito” e sostenuto da una raffinata profondità armonica trapuntata con alcune graziose contromelodie. 

Riassumendo il catalogo dei quattro capitoli che si susseguono in questa serenata, la musica è transitata dal classicismo mozartiano al valzer viennese, e, passando dall’elegia, è giunta ai  colori decisi del pittoresco naturalistico locale (l’autore attinge ad un tema che nella traduzione del titolo diventa “Sotto il melo verde”). Oltre a delineare situazioni così diverse che non sono un qualche voyage pittoresque ma hanno come denominatore comune l’eleganza classica, Čajkovskij ha ancora un asso nella manica e lo gioca nel finale con sottile abilità drammaturgia. Proprio mentre il pezzo sembra destinato a concludersi risolvendo la cadenza che si sta sviluppando con un gratificante accordo di do maggiore conclusivo, ecco che l’autore ci sorprende aggiungendo una coda che ci sorprende. 

Come in una rivelazione trionfale, la partitura riprende il nobile tema corale con cui l’autore ha introdotto il primo movimento. Ma la curiosità più eccitante è che le sue quattro note discendenti si fondono con le stesse quattro altezze che formano il motivo della seconda canzone popolare precedentemente utilizzata e ora riproposta per l’ultima volta con la sua velocità trascinante. Caldi conduce con vigore questa geniale chiusura del cerchio, accompagnando l’orchestra nello slancio indispensabile a restituirne la scintillante luminosità. Ai sinceri e meritati applausi per tutti, è seguito il breve intervallo necessario a posizionare il pianoforte protagonista della seconda parte del concerto e a sistemare i leggii dell’orchestra che ora deve aggiungere ai colori degli archi anche quelli del flauto, del clarinetto, dell’oboe, del fagotto, dei timpani e dei piatti, costituendo l’organico ridotto previsto dall’arrangiamento realizzato da Ian Farrington per portare questo concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninoff anche in spazi non adatti a ricevere l’organico orchestrale al completo previsto dall’autore. 

Con questo Concerto n°2 Op.18 Rachmaninoff coltivava la speranza di rinascere dopo il disastroso insuccesso riportato dalla Sinfonia n.1, Op. 13 che gli è costato tre anni per aver ragione di una depressione in cui la confidenza con la vodka era stata inutile sollievo, mentre sarebbero state risolutive le sedute d’ipnosi dal neurologo Nicolai Dahl che per questo ha meritato ricevere dal suo ex paziente la dedica del concerto liberatorio. Insieme ad una sontuosa orchestrazione la scrittura pianistica di questo concerto sembra tagliata sulla misura del talento dello stesso autore, concertista sublime, che si è incaricato di sedersi alla tastiera nella prima, fortunata esecuzione moscovita del 1901. Insomma si tratta di un vero banco di prova per i pianisti e l’interpretazione di Gianluca Luisi, invitato in questa occasione, ha trasmesso la sensibilità musicale necessaria a restituire tutti i dettagli emozionali con cui Rachmaninoff ha costellato la partitura. 

Ma oltre ai sentimenti di fatalismo e pessimismo espressi da una sorta di malinconia desolata, con il suo talento, l’agilità delle sue mani e la sua esperienza, il pianista ha fatto onore ad una scrittura che vanta ricchezza di sonorità, genio melodico nelle cadenze e un apparato decorativo di abbellimenti elaborati con insidiosi passaggi virtuosistici, tecnicamente ereditati dall’asse Chopin-Liszt. Anche la direzione di Caldi è stata chiara ed empatica, quasi telepatica con una orchestra precisa dal suono compatto in tutte le dinamiche e negli slittamenti della pulsazione. Meritano un plauso anche i solisti della formazione marchigiana, chiamati ad emergere in esposizioni tematiche da interpretare afferrando il senso del loro pathos dolente: in primis Rachmaninoff ha distribuito questi passi al clarinetto, al flauto, al fagotto. 

Il concerto prende avvio con gli otto accordi che Rachmaninoff ha cadenzato come oscuri rintocchi nell’incipit solitario per il suo strumento. Un progressivo cambio di dinamica, dal pianissimo al fortissimo, accompagnerà lo sbocciare dell’idea motivica proposta inizialmente con violini, viole e clarinetti all’unisono, e nella seconda parte lasciata ai violoncelli, e infine al pianoforte nel loro stesso registro. E’ il preludio alla prima cadenza del pianoforte nella tonalità di do minore  e su un tempo più sostenuto, con il do che otto battute dopo diventerà un pedale sopra il cui Luisi fluttuerà cristallino nel registro acuto della tastiera. Una cadenza sposta il tema principale ai fiati, mentre la sezione dei violini offre una premonizione del secondo soggetto cantabile affidato al piano solo, a cui si aggiungono i violoncelli  nella seconda all’esposizione, e seguendo con una terza aperta dagli oboi e dai clarinetti a cui si aggiunge il pianoforte dopo una battuta fino alla conclusione. Per la cronaca, questo splendido movimento iniziale, maltrattato dai critici inariditi che nell’abbraccio alla Neue Musik lo hanno confinato al kitsch o ancor peggio declassato da musica d’arte a musica d’uso, è stato l’ultimo dei tre ad essere composto con un’afflato lirico d’altri tempi ma con un’efficacia infallibile e atemporale nel raggiungere i cuori disponibili all’abbandono e all’incanto. 

Del resto tutto il concerto e tutte le composizioni di Rachmaninoff sono state osannate dal pubblico e accolte dalla critica con un coro di accuse impietose, puntando unanimemente il dito contro le sue delizie melodiche, battezzate come Gebrauchmusik ideale a commentare le storie insulse raccontate dai soggetti del cinema commerciale di Hollywood. E su questo tema del grande schermo, l’esimio Mario Bortolotto punge con il veleno più odioso che gli è spontaneo, ricordando che anche il cinema di valore ha preso le sue distanze da Rachmaninoff. Lo fa ritagliando per i suoi lettori una scena da The seven years Itch di Billy Wilder. Qui un dongiovanni prepara l’atmosfera ammaliante per sedurre Marilyn Monroe facendo girare sul piatto un lp su cui è inciso il secondo concerto del nostro Rachmaninoff: ma la sua preda, attraverso quella musica che riconosce immediatamente, si sente disarmata dinanzi al suo corteggiatore commentando “oh no, no, Rachmaninoff, it’s disloyal”. 

Ma questo è uno tra i tanti episodi, perché ci sono anche i saccheggi di melodie interne al concerto spudoratamente ricalcate, fra tutte quelle che ascoltiamo dalla voce di Frank Sinatra: una melodia del primo movimento si riconosce in I Think of you e in Forever and ever, mentre il secondo tema dell’adagio scherzando è preso come base per Full any empty arms. Il secondo movimento articolato nella forma A B A con una coda, sviluppa la sua intera parabola immergendosi in un carattere notturno con l’indicazione di “adagio sostenuto”, punteggiato da un suono caramelloso. Siamo di fronte ad una delle grandi illuminazioni melodiche di Rachmaninoff che conferisce al tema un carattere di lirismo idilliaco dal disegno semplice. Qui dopo le otto battute introduttive il tema principale transita dall’esposizione flauto, a cui la partitura prescrive un approccio “dolce e sempre espressivo”, al clarinetto e infine dal pianoforte che conclude la sezione A. 

Su un tempo più mosso il tema della sezione B è presentato dal fagotto quindi dal clarinetto e infine dal pianoforte con uno sviluppo rapsodico in cui ritorna il motivo della sezione A. Come è accaduto nella Serenata di Čajkovskij, è il movimento conclusivo che in questo caso è il terzo, a portarci decisamente in un’ambientazione ritmico-melodica dove l’anima slava mostra in primo piano la sua retorica. Rachmaninoff stabilisce che la vivacità vernacolare di questo episodio conclusivo, dove in splendenti lacche colorate si amalgamano sensualità, illusionismi e suggestioni, debba presentare i suoi mulinelli e le sue gherminelle di evidenza quasi palpabile, sul tempo di allegro scherzando. Applausi ovvi e meritatissimo per Massimiliano Caldi, per l’orchestra e per Gianluca Luisi che con aristocratica flemma ha generosamente risposto alle ripetute richieste di bis con due pagine del suo repertorio solistico. In un momento così delicato che nel nostro Paese ha visto emergere posizioni assurde contro la cultura russa, proporre questi ritratti dell’anima slava è stata un’iniziativa coraggiosamente meritoria che ha ribadito quanto la grandezza dei linguaggi dell’arte, con il loro inno alle più varie forme di bellezza, sia irriconducibile a qualsiasi miseria speculativa.


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