CANTASTORIE CON BANDONEON

 




L’impagabile dimensione intima dell’ambiente coinvolgente in cui si è svolto il concerto di Daniele Di Bonaventura, organizzato con tutte le cure dall’Accademia Malibran di Altidona, è stata il polo ideale a creare un campo magnetico perfetto per condurre spontaneamente la beatitudine emozionale della musica nell’anima del numerosissimo pubblico. Il presupposto essenziale e convincente con cui il bandoneonista fermano ha proposto il suo recital solitario, è quello di irradiare le sue interpretazioni verso campi linguistici aperti, cercando spazi espressivi alternativi a quelli assegnati dal ruolo radicalmente identitario che ha vincolato la poesia di questo strumento alla musica rioplatense. L’argomentum crucis è quindi il superamento del tango, genere meraviglioso creato da un popolo in maggioranza immigrato e per questo precipitato nelle spire di un immedicabile dolore nostalgico che solo la voce del bandoneon è stata capace di pronunciare, restituendone il dramma. 


In questa prospettiva Di Bonaventura si orienta anche attraverso le sua coltivate erudizione di compositore per scrivere commoventi brani originali e volare con i suoi arrangiamenti per riscrivere la memoria tra epoche e stili. Ad Altidona oltre ad una selezione tematica di sua composizione il repertorio è transitato da Albinoni al brasiliano Toquino; dagli standard del jazz come My one and only love, al curioso stravolgimento di un saltarello marchigiano; dal tango cancion cinematografico Mi Buenos Aires querido del mitico Carlos Gardel, alla rielaborazione quasi cubista di un celebre archetipo del tango classico come El Choclo, scritto all’alba del ‘900 da Angel Villoldo. E a proposito di ricuciture con quelli che Walter Benjamin chiamava “i detriti della Storia”, in questa circostanza riguardanti il tango, non potevano mancare le rivisitazioni originali di alcuni brani, anche poco conosciuti, composti da Astor Piazzolla che dalla seconda metà dei novecenteschi anni cinquanta, insieme al genio più sperimentale e sottovalutato di Eduardo Rovira, ha coraggiosamente insistito per liberare il tango dalla sua stessa leggenda, riuscendo ad aprire una breccia musicale nella sua tradizione conservatrice, cresciuta e tramandata in un recinto di consuetudini, che già allora era ridotto ad anacronistico magazzino di stereotipi. 


Circa quindici anni dopo le prime furiose incisioni dell’Ottetto de Buenos Aires che sotto la guida di Piazzolla esprimeva un rinnovamento spregiudicato con le conseguenti rimozioni dei cliché del genere, un altro giovane bandoneonista di nome Dino Saluzzi, lasciava la folgorante orchestra tipica di Osvaldo Pugliese per intraprendere una lunga avventura decisamente eccentrica rispetto al baricentro del tango. Originario della provincia andina di Salta a cui è profondamente legato, Saluzzi ha inizialmente ripreso la via del ricchissimo folklore argentino, combinandolo in seguito con il jazz in una coniugazione inaudita. Il risultato è stato così singolare e così sofisticato da interessare addirittura, e meritatamente, un cultore del suono come Manfred Eicher, l’esigente patron della casa discografica ECM. Nel 1983 questa celebre etichetta pubblicherà il primo di una lunga serie di album con Saluzzi. E questo lavoro d’esordio consiste in una performance solitaria, come del resto l’ultimo della lunga lista di progetti incisi per la casa discografica tedesca e realizzato nel 2020, quando per Saluzzi erano scoccati gli 85 anni di età. 


Quest’ultimo excursus sintetico su Saluzzi serve a indicare quale siano i paradigmi e l’alveo estetico di riferimento serpeggiante nelle idee musicali di Daniele Di Bonaventura che, facendo tesoro di queste ispirazioni, le ha elaborate secondo la sua personalità nella modalità autonoma corrispondente alle sue molteplici esperienze e alla sua cultura musicale di severità adamantina. Attraverso queste coordinate del tutto personali Di Bonaventura ha sviluppato un flusso altalenante di chiaroscuri esprimendosi in simbiosi con il flessuoso dipanarsi del suo mantice, come sulla scena di un teatro del piacere che coniuga l’empatia con lo strumento al linguaggio del corpo, l’espressività del suono con la mimica tormentata del gesto e anche con l’affabilità dei modi nell’illustrare succintamente le tappe dell’itinerario musicale che stava intraprendendo. Anche questo aspetto contemplativo e colloquiale della sua performance nella sede del’Accademia Malibran, è servito a saldare un incisivo legame con il pubblico, aggiungendosi al fascino incantatorio permeato nelle sue costruzioni musicali, quasi tutte organizzate raggruppando insieme alcuni brani in una sequenza affatto preordinata, ma scaturita dagli imperscrutabili processi del suo istinto creativo. 


Se la formidabile qualità timbrica del bandoneon agisce infallibilmente nel sedurre il pubblico all’istante, conferendo alla sostanza melodica il sapore struggente di una irresistibile melanconia, la musica di Di Bonaventura ha trovato la sua ulteriore bellezza nella lussuosa ampiezza dei campi armonici che si giustappongono, e nel vortice delle idee ritmiche che si alternano stringendosi e dilatandosi. Tutti questi significanti enigmatici elencati a volo d’uccello, sono sottoposti alle scelte che Di Bonaventura elegge di volta in volta in materia di dinamica sonora, equilibrandola perfettamente tra i registri utilizzati dalle due mani, e facendola trascolorare da una austerità corale di sontuosità organistica ad effetti che, lasciando nude le note del sibilate registro acuto, riescono quasi a smaterializzare la pasta sonora riducendola al pulviscolo impalpabile di una diafana luce impressionista. 


In tutte le articolazioni delle frasi, le mani agili di Daniele danzano sulle tastiere con una leggerezza che esalta la carnalità sensuale comune alla gloriosa araldica dei bandoneonisti nella loro funzione di strumentisti, nascondendo la concretezza della fatica fisica che comporta maneggiare il loro strumento. Tra acrobazie stilistiche e vertigini sfavillanti, Di Bonaventura non riduce il bandoneon a semplice servitore di delibazioni estetizzanti, ma lo impiega come una vera e propria macchina drammaturgica che elabora alchimie narrative. Con esse lo strumentista assume anche le vesti di un contastorie intento a raccontare le proprie trame disegnando mappe melodiche sospese su una complessa polifonia di voci, senza trascurare di dare libero sfogo a brevi parentesi improvvisate con tempestosi svolazzi di note serrate. Ne scaturisce una sorta di realismo magico in chiave musicale che agisce sull’ascoltatore come una sostanza stimolante e persino psicoattiva. 



Così il potere della musica ha esercitato il suo incantesimo più prezioso, offrendo all’esperienza dell’ascolto la dolce grazia dell’abbandono che hanno quei momenti metafisici in cui la coltivazione dello spirito raggiunge le forme della rivelazione. Inoltre, la moltitudine di persone che all’Accademia Malibran ha esaurito anche i posti aggiunti per fronteggiare le richieste di tutti, è stata premiata con il privilegio di godere un impareggiabile confort confidenziale, favorito dall’assetto della platea. Infatti la disposizione delle sedie a modo di anfiteatro ha permesso di circoscrivere il perimetro in cui si è sistemato Di Bonaventura, realizzando una sorta di abbraccio inclusivo che ha moltiplicato gli effetti attivi della stimolante partecipazione delle coscienze e dei reciproci scambi di energia. Questo corteggiamento dialogico e comunicativo si è orchestrato in un’intensa attenzione silenziosa dal quale trasparivano sinceri sentimenti d’intesa: complicità dichiarate apertamente tutte le volte che si concludevano gli episodi musicali con applausi di elettrico entusiasmo, infine incoronati da un’apoteosi nelle insistenti richieste di bis, esaudite con due saporosi quadretti. Manfred Eicher, che ha già inserito nel suo catalogo discografico di eleganza insuperabile un paio di progetti con Daniele, ha tutte le ragioni per ritenerlo autorevole erede del suo Dino Saluzzi. 


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