PAUL CÉZANNE. MONTAGNE E MELE


(testo per la mostra organizzata presso la Biblioteca Comunale Centrale di Milano a Palazzo Sormani)

Cosa spinge il pittore che Roberto Longhi ha definito il “il più grande artista dell’era moderna”, a dipingere circa 80 quadri il cui soggetto è la montagna?  Per di più la stessa montagna Sainte-Victoire, una roccia bianca che inserisce il suo profilo imponente e tozzo nel paesaggio dove la macchia mediterranea ospita minuscoli borghi provenzali.  

Per Paul Cézanne questa montagna è stata una musa così attraente da soddisfare il suo desiderio di rappresentare la realtà della natura, restando fedele alle sensazioni fluttuanti che trovano le loro regole in un paesaggista quale è stato Nicolas Poussin e nella lezione ereditata dalla scuola di Courbet.   

Il faccia a faccia tra quel volume invadente e la sua tavolozza, dà luogo ad una continua varietà di sublimi metamorfosi in cui il contrasto dei colori caldi e freddi fa emergere la luce, mentre la deformazione del paesaggio ottenuta dall’infrazione alle regole prospettiche, evidenzia l’intenzione di decostruire il canone di natura naturans del classicismo pittorico.

Ne scaturisce una forma che non finalizza il consueto iter dei disegni preliminari ma è creata direttamente, attraverso la formidabile evidenza del colore, per esprimere carattere ed essenza piuttosto che sentimenti e pathos.  

Il suo sintetismo prospettico di forma e colore in armonia tra figura e geometria, suscita in uno storico dell’arte dalle intuizioni prodigiose quale è stato Bernard Berenson, l’idea secondo cui “Piero della Francesca presagisce Cézanne ”. 

Concetto in quegli anni certamente visionario  e che si rivela un collegamento folgorante per il giovane genio di Roberto Longhi, già pronto ad essere sufficientemente trasgressivo da assumere una posizione critica nei confronti delle opere di alcuni artisti rinascimentali: quelli che fanno sfoggio di retorica e intendono presentare una descrizione delle emozioni, fossero anche Giotto o Donatello.

Come il suo amato Piero, l’encomiabile valutazione riportata in apertura a proposito di Cézanne verte sul fatto che Longhi lo ritiene estraneo a questa categoria.  

In lui riconosce un’arte che non si preoccupa di rappresentazioni per così dire psicologiche, bensì un’arte-architettura costruita con rigore, elaborando quella scienza della composizione che ricerca il bilanciamento perfetto delle forme.  

Questa indagine continua avviene attraverso la reiterazione di soggetti identici e non riguarda solo la Montagne Sainte-Victoire ripresa ossessivamente en plein air, ma anche le composizioni preparate negli interni del suo studio. Qui lo stesso obbiettivo riservato al paesaggio è proiettato nel campo della natura morta, secondo una sorta di filiazione del più squisito specialista: Chardin.

Regine delle oltre duecento nature morte cézanniane, un quinto di tutta la produzione conosciuta dell’artista, è la frutta con una predilezione così particolare per le mele che sulle pagine della celebre Revue Blanche (1895), Thaddée Natanson lo battezzò come “peintre des pommes”. 

A questo proposito la loro trasformazione in forme e volumi tondi su cui depositare il colore, ricostruisce la loro natura che, come scrive Rilke in una delle sue celebri lettere, “perde tutto il suo carattere commerciale”.

Questa acuta osservazione coglie la necessità di interpretare gli oggetti presenti nella composizione delle nature morte  su un nuovo piano di realtà: le mele diventano protagoniste di una messa in scena teatrale, affiancate da brocche, piatti, tessuti, vasi, coltelli e anche teschi... oggetti che si alternano, fungendo da comparse in questi palcoscenici silenziosi.

Se da un lato Cézanne ci accompagna in quella estetica del Sud che a suo parere “impone un mondo di forme ben definite”, dall’altro ci invita ad incontrare la sua opera, così apparentemente concreta nei suoi volumi di paesaggio o di natura morta, leggendola attraverso la dimensione leonardesca della “cosa mentale”. 

Quando negli anni ‘50 Picasso si stabilì in un castello dalla quale poteva ammirare quella stessa Sainte-Victoire, la trasfigurò su un foglietto dove i volumi e i colori sono sottratti lasciando la fisicità disincarnata del paesaggio in una sorta di luce tremante. 

Nel bianco e nero di una china stemperata, una luce simbolica che possiamo solo immaginare per via del sole scintillante e infantile, sovrasta la montagna proiettando nel cielo i suoi raggi. In quegli anni alcuni appunti di Longhi testimoniano come il suo sguardo critico rovescia il giudizio negativo su Picasso, ma questo non si trasformò mai in una pubblicazione sull’artista catalano.




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