CON LA TRASPARENZA DEL SENTIMENTO



(note di copertina dell cd Les temps du Tango)


Tra i poliedrici progetti discografici che proliferano in reticoli dalle più varie forme in questo terzo millennio, è raro imbattersi in opere da cui si può venire conquistati radicalmente per il fascino emanato da ogni singola tessera che ne compone il mosaico.

Il cd Les temps du tango ha tutte le carte in regola per figurare nell’esiguo carnet composto da quelli che ci riescono pienamente, coinvolgendo l’ascoltatore in una erranza tra ricordi, emozioni, intersezioni e interferenze: facendolo inciampare sovente nella commozione e nel batticuore.

Mai come in questa occasione la curiosità che ha contraddistinto la carriera di Annamaria Musajo si è presentata nelle autorevoli vesti di una profonda confidenza con varie lingue e generi, specchio e filo conduttore della sua tenace consapevolezza artistica, resistente anche alle difficili prove a cui l’ha sottoposta una visibilità che non è sempre stata quella meritata.

Tango, jazz, musica leggera d’autore, francese, brasiliana, italiana anche nella sua coniugazione partenopea per “Era de maggio” che mette in musica una poesia tardo ottocentesca di Salvatore Di Giacomo: un intarsio di contrappunti che volteggia per sedurci, brillando di tinte dall’intensità mercuriale.

La voce con le sue inarcature verbali, è declinata da un timbro vocale che si fa cangiante a misura dell'intenzione espressiva, rilevando tra le altre virtù una minuziosa attenzione verso la sfaccettata fonetica delle diverse lingue impiegate.

Tutte le esecuzioni riescono a suscitare, per un motivo o per l'altro, immagini fluttuanti nello spazio impuro e visionario del misurato tessuto musicale che intreccia la vocalità ora cristallina, ora tenebrosa e dolente della Musajo.

Varcare le frontiere dei generi, così come avviene in questo lavoro, ha significato per i suoi protagonisti indirizzare le proprie inclinazioni naturali verso un comun denominatore ibrido, in grado di plasmare materiali eterogenei. 

In questo allargare il dialogo collettivo ad ampi tessuti di relazioni,  si evidenzia una  perizia decisamente evoluta a sapienza di connaisseurs.

Così, ad una ad una, le pagine raccolte ci accarezzano con i loro bagliori e i loro riverberi, muovendosi nell’interstizio sottile che intercorre tra l’empatia e la distanza, spazio che si flette e si curva intorno ad un traliccio retorico dove il sapore della scoperta non è solo esercizio intellettuale ma anche affondo viscerale.

Il gioco d’introflessione ed estroflessione che ne segue, suggerisce l’ipotesi di un approccio musicale esercitato come esperienza del trasparente, ovvero di un palinsesto con cui scrivere, o meglio riscrivere, sopra i segni e le tracce di cui le composizioni scelte sono portatrici.

Questa attitudine è particolarmente necessaria quando nel repertorio sono inserite pagine di riconosciuta notorietà, tanto da contare negli anni innumerevoli interpretazioni, anche prodigiose.

Il catalogo è questo: la sublime melodia di  Oblivion che Astor Piazzolla ha scritto come motivo conduttore del film di Marco Bellocchio intitolato Enrico IV, omonimo della novella pirandelliana da cui è tratta la sceneggiatura cinematografica; l'emozionante zamba Alfonsina y el mar, che inquadra il  tragico destino suicida della poetessa Alfonsina Storni, ticinese di nascita ma argentina di adozione; il tempo ternario di Beatriz che i  brasiliani Edu Lobo e Chico Buarque hanno composto nel 1983 per il musical O Grande Circo Mistico; il valzer La foule, portato al successo da Edith Piaf nel 1957, nella versione della Musajo diventa sorprendente quando, improvvisamente, viene ripreso il testo originale del vals peruviano Que nadie sepa mi sufrir, dal quale il successo francese ha ereditato la melodia; l’indimenticabile capolavoro La Tieta del catalano Joan Manuel Serrat, che nel Belpaese è conosciuto come “Bugiardo e incosciente”, hit di Mina nell'amara traduzione di Paolo Limiti, qui restituita in tutto il suo vortice drammatico di cieca illusione; il sofisticato brano del pianista Jimmy Rowles, ribattezzato Timeless Place nella versione con il testo di Norma Wistone, melodia che deve la sua piccola fortuna commerciale al fatto di essere stato inclusa, con il suo titolo  originale di The Peacock, nella colonna sonora del film cult Round Midnight diretto da Bernard Tavernier: ma soprattutto di aver incantato il pubblico dei jazzofili nella sua definitiva consacrazione strumentale incisa da Bill Evans, sia in trio che con l’aggiunta di Stan Getz; la canzone “Ritornerai”, composta da un’artefice della scuola genovese, Bruno Lauzi; il classico di stoffa ruvida che il poeta Leo Ferrè ha scritto e inciso nel 1958 con il titolo Les temps du tango, scelto con sottile intuizione come titolo del cd. 



E, a proposito, va sottolineato come il tango sia una delle passioni brucianti di Annamaria Musajo, tanto che anche il viaggio proposto in questo cd parte proprio da un “melodramma di tre minuti” (Placido Domingo) che si consuma in uno dei cento barrios di Buenos Aires, e precisamente nella sala accogliente di un cafè…”università di tutte le cose” scriveva il poeta del tango Enrique Santos Discepolo.

In questa atmosfera arrabalera, due amanti sono sorpresi durante il loro ultimo incontro. Seduti ad un tavolino in mezzo alla gente che li guarda,  sembrano una coppia normale che ride scambiandosi occhiate complici. Ma non è così. Se sono un po’ alticci è perché cercano di anestetizzare con lo champagne il dolore del loro naufragio, una deriva irrevocabile che subito dopo trascinerà quella storia d’amore ormai lacerata, nel gorgo implacabile del loro reciproco passato, incenerita tra le fiamme del tempo. 

Lo raccontano i versi scritti da Enrique Cadicamo nel 1922, purificati dalla censura perfino nel titolo, divenuto Los mareados in luogo del più sconveniente Los dopados. L’interpretazione della Musajo restituisce l’essenza della melodia di Juan Carlos Cobian, su cui questi versi sono disegnati, a quella scorrevole cantabilità che all’orecchio contemporaneo risuona come un melanconico manufatto, ripescato dal fondo di un lago immaginario da una fata benevola. 

Per articolare la musica nel quadro magico dove sono inscritte tutte le tracce incise, la Musajo non poteva eleggere un partner migliore di quanto sia il pianista Arrigo Cappelletti che da sempre ha coltivato un pensiero mobile, coniugandolo in una precisa visione jazzistica, colta e originale. 

Qui il pianista è anche autore del magnifico tema che occupa la seconda traccia ed è intitolato Rouge, dove oltre al suo assolo, trova posto anche l’improvvisazione del fisarmonicista Fausto Beccalossi che completa l’organico del trio: un musicista dalla sensibilità speciale che, proprio per questa dote, sa esercitare un virtuosismo strumentale sempre attento a essere organico rispetto alla natura della musica d’insieme che lo ospita.

In alcune tracce si aggiunge la chitarra suonata da Flavio Minardo che sfoggia luminosi interventi solistici perfettamente amalgamati nel contesto espressivo, come nel classico del 1962 intitolato dall’autore, Sergio Endrigo, Io che amo solo te. 

Distillando momenti di grazia intarsiati di palpiti, evanescenze fosforescenti, accumuli e sottrazioni, il flusso della musica si decanta in stile con il suo portato di identità.

Scandita con la tensione leggera di un ritmo, a tratti assottigliato fino a divenire impalpabile, si comporta come una sorta di spugna che assorbe e riflette la luce lunare del canto, incoraggiando l’armoniosa convivenza tra individualismo e spirito collettivo.

E immergersi in questo sistema di vasi comunicanti tra parole e musica, ci fa comprendere ancor meglio quanto sia necessario opporre un argine di poesia allo spreco dei sentimenti, al rischio che si perdano nel vento per uniformarci ai tratti di durezza che affliggono il declino della nostra civiltà, al pericolo di restare indifferenti alle vene gonfie nelle mani dei vecchi, agli echi delle guerre lontane, ai quotidiani drammi che si consumano nel nostro mare, agli occhi dolorosi di un uomo che chiede l’elemosina, persino alle promesse di nuovi possibili amori.

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