PIERANUNZI E IL PLURILINGUISMO DI GERSHWIN

Il pianista Enrico Pieranunzi con il fratello Fabrizio al violino e Gabriele Mirabassi al clarinetto, hanno ospitato e sono stati ospitati dalla musica di George Gershwin, invitando a questo cortocircuito il pubblico che ha esaurito i posti disponibili nella sala/salotto dell’Accademia Musicale Malibran di Altidona, Ancora una volta le impressioni coinvolgenti e il calore fisiologico offerti dalla performance dal vivo, amplificano e forse deviano quelle ricevute nella comoda, solitaria e comunque attenta situazione domestica in cui un individuo può preparare la sua futura occasione concertistica con l’ascolto di un cd che ne documenta il programma ma che è immancabilmente, e anche nel migliori dei casi, un’esperienza tra virgolette. Da un simile quadretto domestico ho tratto gli spunti serviti a presentare un vademecum preparatorio per il concerto Play Gershwin, ma ora trovo necessario aggiungere un’ulteriore nota post concerto, in cui la predetta esperienza dell’ascolto da cd si è sbarazzata delle virgolette, entrando con tutto il corpo nel caleidoscopico puzzle sonoro di questo trio, mobile, diffratto, sovrapposto, devoto al culto per il dettaglio e nutrito di un gradiente emozionale che ha orlato la performance dal vivo di colori, forme e tensioni. Le orchestrazioni originali create da Enrico Pieranunzi, hanno risillabato un percorso musicale coerente che ha esplorato da un’insolita angolazione timbrica le partiture di Gershwin, conferendo alla musica una consistenza cameristica, secondo una narrazione unitaria originale e accessibile pur senza ricorrere a scorciatoie edulcoranti. Oltre che ubbidire a questo filo conduttore, va sottolineato come l’intrigante progetto pieranunziano non abbia lo scopo del memoir retrospettivo, ne è pensato come un esercizio autoreferenziale o come quelle sempre più frequenti celebrazioni impigliate nei meccanismi rimasticati del mainstream: si tratta piuttosto di un atto critico e selettivo alla ricerca di un’essenza da rigenerare con trasfigurazioni del tutto antiretoriche. Da queste metamorfosi emerge che lo sguardo sul compositore e pianista di origini russe, è orientato dall’esegesi contemporanea, schiudendo una posizione stilistica che è per così dire gnoseologica, quindi liberata dall’inattualità con la sua sistematica filologica e dai compiacimenti estetizzanti. Con il suo gusto raffinato e un lavoro certosino, quasi persiano nell’isolare le cellule fenomeniche che si annidano e nutrono di originalità il discorso musicale di Gershwin, gli approfondimenti di Pieranunzi sono assimilabili a quelli dell’impeto sentimentale di un erudito analista, piuttosto che a quelli di un copista dalla pignoleria claustrofobica o a quelli stravaganti e a volte preziosi che potrebbe elaborare un membro del club delle cosiddette “riletture” affollato di esimi jazzisti. Uno dei suoi propositi primari è quello di difendere l’opera di Gershwin denunciando l’equivoco che continua ad inserirlo nella categoria dei compositori americani considerati come nobili outsider, soprattutto a causa del suo eclettismo considerato a torto imperdonabile dai più intransigenti puristi della critica accademica,… gli stessi che, salvo poche eccezioni, riescono a storcere il naso anche di fronte ad uno straordinario fuoriclasse come è stato Leonard Bernstein, sublime direttore d’orchestra ma compositore reo di sei scappatelle nellla frivolezza del musical di Broadway.
Questo argomento è stato toccato in uno dei momenti in cui, tra un brano e l’altro Pieranunzi ha inserito una serie di informazioni che sono state una sorta di delicato tutorial sull’opera di Gershwin, con amicali considerazioni sempre trattenute al di qua della linea dopo di che il discorso slitta tra le pieghe del tecnicismo. E in un’altro dei suoi interventi che hanno svelato la placida eloquenza della sua sapienza e i tratti gentili della sua umanità, Pieranunzi ha sostenuto come Gershwin sia stato un esempio emblematico di quello che Pasolini e il suo mentore Contini hanno battezzato plurilinguismo, mentre i francofoni hanno scelto il vocabolo métissage e gli anglofoni hanno messo a punto l’opzione doppia con due termini analoghi: fusion o crossover. In sostanza Gershwin inquina le fonti rigorose su cui si è fondata l’evoluzione della musica accademica europea, facendo risuonare nella sua opera accenti ed espressioni vernacole autoctone e individuabili nel solco del blues, povero e generoso dispensatore di ispirazioni che ha saputo coinvolgere l’attenzione di diversi geni della musica novecentesca: e oltre a Gerswhin, basta citarne due come Stravinskij e Ravel. Il Gershwin compositore rivolta e modula in molteplici sfumature e variazioni il blues, vale a dire la matrice afroamericana del jazz e quindi la matrice della musica americana stessa. Lo fa pur non essendo un jazzista e in questo modo inaugura negli Stati Uniti degli anni ’20, quelle che nell’ottocento musicale europeo sono state denominate Scuole Nazionali, secondo cui musicisti come, tra i tanti, Liszt, Dvorák, Smetana, Grieg, Glinka, e più tardi Bartók, attingevano dal folklore dei propri paesi materiale ritmico, timbrico e melodico, per caratterizzare con un colore locale le loro pagine. Il genius loci conferito dal blues ha un risvolto straordinario in quanto arriva a scardinare la dualità tra il modo maggiore e quello minore che ha segnato lo spartiacque per eccellenza della musica occidentale, almeno da quando ha scelto di riconoscersi nel sistema tonale. Pieranunzi decide di iniziare il concerto dal suo arrangiamento di An American in Paris, con il primo tema di leggiadra vitalità che ha un carattere estraneo al blues, trascinandoci in una matissiana joie de vivre da cui traspare il piacere dell’autore nel suggerire una spensierata invitation au voyage. La musica evoca l’esatta gradazione di una mattinale luminosità dove an american in Paris passeggia scanzonato con un tono boulevardier, scoprendo gli incanti di quell’Olimpo culturale del mondo d’avanguardia che è stata la Ville Lumiere degli anni aurei e folli. Anche l’armonia ha uno smalto che ci porta vicino a sonorità e soluzioni francesi e oserei fare il nome di Faurè, ma ancor di più, ritirare fuori quello di Ravel.
La distribuzione delle parti fa risaltare il carattere e la bellezza del suono del violino e del clarinetto, mentre il pianoforte collega, sostiene, si fa avanti, inserisce alcuni giocosi cluster e persino la leggera citazione di un celebre tema tipico della frizzante vie parisienne offenbachiana. Lo spirito del blues affiora nel secondo tema quando sono trascorsi circa sei minuti e ad annunciarlo è la suadente lentezza felina del clarinetto. Nelle elaborazioni che seguono la linea melodica è scambiata tra gli strumenti, ma anche modificata in varie forme e caratteri o citata con il riemergere della cellula originaria del motivo. Le suggestioni blues aleggeranno su tutto il resto del repertorio presentato, sia nei Preludi che nella versione rielaborata di Rhapsody in Blue e nei temi tratti da Porgy and Bess ed eseguiti nella edizione elaborata dal violinista Joshua Haifez con disegni ornamentali che hanno valorizzato l’eleganza, il suono e la padronanza tecnico-espressiva di Fabrizio Pieranunzi.
E il suo esprit malinconico traspare nel delicato brano che Enrico Pieranunzi ha composto per questo progetto, intitolandolo Variazioni su un tema di Gershwin e sviluppando il suo motivo su un metro ternario che si apre in una morfologia formale in cui le scelte cromatiche dei colori a disposizione del trio sono alternate, sovrapposte o ridotte a parentesi monocrome del solo pianoforte, secondo un rapporto di interferenza. Oltre a tutta questa musica fissata diligentemente sul pentagramma per interpretarla così com’è in tutte le occasioni future, il programma ha proposto due song originariamente inserite nelle esili e spettacolari vicende dei musicals, ma protagoniste di un successo autonomo per via delle innumerevoli interpretazioni jazzistiche. Pieranunzi le ha collegate tra di loro, formando una medley con due facce molto caratterizzate in cui è stato affrontato il tema dell’improvvisazione, che non è una chimera auspicata sulla nave dei folli, ma la semantica paradossale che sposa il rigore all’imprevedibilità. Da un lato Enrico Pieranunzi da solo ha interpretato The man i love in una versione che ha dato prova della sua disinvolta confidenza con l’atto improvvisativo, agito secondo quelle intuizioni istantanee che rendono irripetibile, anche per lo stesso creatore, il manufatto musicale configurato nota dopo nota, come sfuggendo a quella intuizione benjaminiana secondo cui l’arte novecentesca ha attraversato l’epoca della riproducibilità.
In questo caso il tratto melodico distintivo di questa ballad, che fu composta alla fine del 1924 per la fortunatissima commedia musicale Lady be Good, è stato mimetizzato all’interno di un’ordito che lo ha reso pressoché insondabile, al contrario del brano collegato di seguito e intitolato But not for me. Qui la melodia è stata presentata praticamente ur text, dandoci un’ulteriore dimostrazione del talento melodico di Gershwin, esercitato spontaneamente anche quando la sua scrittura si è dovuta accordare ad uno stile scorrevole che non scoraggiasse il pubblico dai gusti più semplici. In questi casi il suo innato volo lirico ha seguito la traiettoria strutturale della forma canzone con ripetute vampate di estro che nessuna scuola può insegnare e che George Gershwin, Cole Porter, Inving Berlin, Hoagy Carmichael, Richard Rodgers e tutta la proficua comunità di Tin Pan Alley, hanno sfoderato con non chalance in centinaia di occasioni. Si potrebbe sintetizzare icasticamente che dopo l’esposizione tematica con il suo clarinetto, Gabriele Mirabassi ha sfoderato un’improvvisazione torrenziale ingioiellata di arabeschi funambolici scaturiti dal gusto di chi sa trasformare in estetica l’intera filologia tecnica del suo strumento. Ma la sua, e per tuto il concerto, è stata anche una sorta di danza espressiva che ha coinvolto il gesto flessuoso di tutto il corpo: durante questa indiavolata improvvisazione mi ha fatto venire in mente quel Fred Astaire che ha ballato per la prima volta con Ginger Rogers proprio nel musical del 1930 Crazy Girl, dove la sua partner ha cantato le parole di But not for me scritte per l’occasione da Ira Gershwin. E la mancanza di questo aspetto fisico che diventa visuale negli eventi dal vivo, al pari dei sapidi commentari intercalati in questa serata da Pieranunzi tra un brano el'altro, è uno dei motivi per cui ascoltare un cd piuttosto che sedersi tra il pubblico di un concerto, rilascia la percezione tra virgolette, come accennavo all’inizio di questa nota e che, comunque, è certamente una risorsa complementare e auspicabile per le occasioni di benjaminiane riproducibilità che offre. Il gratificante entusiasmo degli spettatori che sono accorsi a questo appuntamento inserito nel prezioso cartellone concertistico curato con passione e competenza da Rossella Marcantoni, è stato premiato da Enrico Pieranunzi, Fabrizio Pieranunzi e Gabriele Mirabassi con i bis unanimemente reclamati. Due eleganti bozzetti iperbolici dallo svolgimento sintetico: blues alla maniera di Gershwin in cui sembravano essersi annidati i colori rosacrociani del Satie gymnopédico.

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