FINO ALL'ULTIMO RESPIRO. Cahiers du Cinema&Nouvelle Vague

Quando Alexandre Astruc scriveva il saggio “Naissance de un nouvelle avangarde”, pubblicato su L’écran nel 1948, non immaginava che in quel testo venisse embrionalmente teorizzato ciò che undici anni dopo avrebbero realizzato gli autori di riferimento della Nouvelle Vague. Questi ultimi, prima di passare all’azione, si erano autoformati a partire dall’assidua frequentazione della Cinémathèque française, nicchia dorata dove, secondo il parere indiscutibile di Jean Cocteau, venivano proiettati “film maledetti”, vale a dire le opere praticamente invisibili nel circuito delle sale. Era il viatico preliminare alle loro interpretazioni critiche pubblicate sulle pagine dei Cahiers du Cinéma, rivista diretta da André Bazin, loro incondizionato sostenitore, che li riconobbe come la prima generazione di “cineasti-cinefili” proprio per la loro insaziabile voracità di spettatori. Sulla mitica testata da lui guidata, mese dopo mese, le recensioni e gli scritti teorici si accumulavano formando nel loro complesso un manifesto diffuso di estetica cinematografica. Il progetto complessivo non intendeva fare tabula rasa: se disprezzava e combatteva la stanca routine delle ricche produzioni di film “piattamente commerciali”, esaltava il lavoro di maestri europei confinati a un ruolo marginale dall’industria cinematografica… il poetico Jean Renoir, il suo assistente Jacques Becker… ma anche il neorealista Roberto Rossellini che Truffaut reputava “l’uomo più intelligente del mondo”. E se tra questi numi tutelari e i giovani turchi intercorreva una palese affinità elettiva, più stravagante sembrava la loro passione per certi maestri nordamericani, Alfred Hitchcock e Howard Hawks in testa. Il battesimo del fuoco avvenne al Festival di Cannes nel 1959, dove François Truffaut presentava I 400 colpi e Alain Resnais il suo Hiroshima mon amour. Due capolavori, che al di là del dividersi successi e scandali, confermarono come le idee forgiate a partire da Astruc e raffinate in un decennio di ribollenti riflessioni potevano realizzarsi concretamente. Presto a Truffaut e Resnais si aggiunsero altri colleghi della redazione dei Cahiers. Si formava il gruppo che Pierre Billard aveva battezzato come Nouvelle Vague sulla rivista Cinéma 58, un gruppo per certi versi eterogeneo, ma con alcuni denominatori comuni o meglio dogmi in minore. Attraverso il loro sguardo, il cinema iniziava a esprimersi con una visione realista che si concedeva di abbandonare la linearità del racconto; a finalizzare pellicole a basso costo e con un maggiore contenuto culturale; a utilizzare scenografie poco impegnative scegliendo di girare molto in esterno e con cineprese leggere: un’autentica frattura con le precedenti generazioni di cineasti. A proposito di cineasti, uno degli elementi teorici fondanti consisteva nel ripensamento della figura del regista, fino ad allora considerato poco più che un artigiano mestierante al servizio della narrazione. Il suo ruolo veniva celebrato dalla “politica degli autori”, secondo cui la direzione cinematografica diventava il contributo di un vero e proprio “autore”, concetto che ha stravolto i compiti di chi sta dietro la macchina da presa. Tra tutti quegli spiriti belli, i più popolari “autori” cresciuti nella Nouvelle Vague sono il duttile François Truffaut, trovatore dell’adolescenza e dell’amore anche nella sua dimensione sociale; l’intellettuale Alain Resnais, con le sue prodigiose sfocature narrative; l’anima inquieta e contraddittoria di Claude Chabrol che dipingeva di giallo aspre esplorazioni psicologiche sulla borghesia provinciale; il radicale Jean-Luc Godard, rifondatore del linguaggio filmico fino alla pura sperimentazione; il più cinephile Jacques Rivette, dalla significativa impronta autoriflessiva; il più classico Éric Rohmer, attento a cercare la convivenza tra le regole del racconto e la libertà della macchina da presa.

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