I BERTOLUCCI, CINEMA E POESIA




(testo per la mostra organizzata presso la Biblioteca Comunale Centrale di Milano a Palazzo Sormani)

 “Nella mia famiglia la creatività era considerata come qualcosa di assolutamente normale….legata allo scorrere della vita….” Con queste parole Bernardo Bertolucci inquadra alla perfezione l’habitat in cui si è nutrito da quando è nato a Parma ottant’anni or sono. Permeato da questo spirito familiare, ha scelto presto quale dovesse essere la sua strada, allontanandosi della poesia che aveva iniziato a coltivare giovanissimo sulle orme del padre Attilio, uno dei più importanti poeti novecenteschi e anche un caso all’interno di una Repubblica delle Lettere, dove è sempre stato in disparte, senza accreditarsi a nessuna delle accese compagnie che si sono accanite le une contro le altre per affermare le proprie teorie. 

Quella strada l’aveva intuita fin da bambino quando il padre lo accompagnava al centro della città, ad immergersi nella magia del cinema che sarebbe stata la sua forma di fare poesia con la camera in luogo della penna. Già a venti anni era assistente al fianco di Pasolini che stava girando Accattone. Poco dopo dirigeva il suo primo lungometraggio La commare secca con il soggetto dell’amico friulano di natali felsinei; quindi i primi premi con il trattamento cinematografico del moraviano Il Conformista nel 1970; lo scandalo dell’Ultimo Tango a Parigi del 1972; la saga rurale raccontata in Novecento nel 1976; il diluvio di Oscar nel 1987 con L’ultimo imperatore, e i terminali anni ’90, aperti in nordafrica con Il te nel deserto e conclusi nell’estate del 1995 in Chianti con Io ballo da sola, quando il regista si era entusiasticamente sorpreso di poter dirigere dalla carrozzina su cui sarà costretto fino al 2018 quando è mancato.
 
Anche il fratello Giuseppe non ha seguito le orme paterne, ma a differenza di Bernardo in cui il tema del padre è uno dei temi conduttori, la sua produzione eterogenea si è soprattutto interessata all’universo femminile e a suo dire nessuno tra i suoi titoli può essere ritenuto un film di successo. Ma se i suoi film non gli sono valsi onori dell’importanza di quelli ricevuti dal fratello maggiore, il suo cinema rigoroso e volutamente di nicchia continua ad avere un valore assoluto. Bernardo ricorda il fratello di cinque anni più giovane in un episodio accaduto durante una delle vacanze trascorse sull'appennino parmense. Giuseppe aveva solo sei anni quando Carlo Emilio Gadda lo aveva incontrato andando in visita al padre Attilio: il fatto assolutamente curioso era che durante le loro conversazioni, lo scrittore milanese parlava con il bambino dandogli del lei. 

Molti anni dopo Giuseppe avrebbe affrontato la regia televisiva del gaddiano Quel pasticciaccio di Via Merulana, mutuandola dallo spettacolo che aveva diretto Luca Ronconi. E proprio in televisione Giuseppe aveva creato nel 1975 quell’irresistibile sottoproletario di Cioni Mario, una specie di ultimo disperato testimone della cultura rurale, portato alla ribalta con gli straordinari deliri solipsistici da un elfo irriverente. Si trattava di Roberto Benigni che era arrivato a Roma tre anni prima e si esibiva abitualmente nel tempio del teatro sperimentale della capitale: il Beat 72, inaugurato da Carmelo Bene sei anni prima. Benigni lo interpreterà anche nel 1977, quando debutterà nel cinema con il film diretto da Giuseppe Berlinguer ti voglio bene. Il film non ebbe l'accoglienza immaginata da Benigni, Bertolucci e dalla contessa Marina Cicogna che questa volta non fu aiutata dal quel fiuto che gli suggerì di produrre C’era una volta il west, La classe operaia va in paradiso e Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto con cui vinse un Oscar. Con la televisione non andò meglio, per via di una censura che permise di mandare in onda i tre speciali intitolati Vita da Cioni solo nel 1978 (oggi disponibili on line su RAI Play).

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