MEMORABILIA N°16: SPIRITI DANZANTI
Baudelaire redivivo, con talento y sin curda,
te salen unos versos que ya nadie discute,
claros, sonoros, limpios, como la menefute,
y de forma tan facil que hasta parece absurda.
Nyda Cuniberti
Lo spirito danzante che è all’origine dell’opera di Horacio Ferrer, sia quella creativa del poeta che quella critica dello storico, è sedimentato in una parola che risuona nell’epoca contemporanea come la più significativa, tra quelle dei personaggi che hanno posto la propria biografia al servizio della cultura del tango. Lontano dai clamori della kermesse letteraria, il poeta di natali uruguayani come quelli del genio sfrenato e crudele di Lautremont, ha speso la vita ad indagare e a nutrire il tango con ostinata fedeltà, agendo con una scrittura tanto profondamente originale da rivoluzionare i caratteri popolari del genere e conquistarsi un posto nel Parnaso novecentesco, con una candidatura al Premio Nobel per la Letteratura (2004).
Sebbene sia riconoscibile il fondo modernista rubendariano comune ai principali poeti del tango ed una velata inclinazione per certa poesia francese, il canzoniere di Ferrer è irriducibile ad ogni ipoteca scolastica. Da esso emergono elementi pittorici e gnoseologici, sensuali e conoscitivi, estetici ed enigmatici, mistici e sonori, guizzanti ed opachi: per questi cambi di scena, alla sua stessa parola non basta la raffinatezza del vocabolario castigliano, ma a volte serve sconfinare anche aldilà del vernacolo porteno, il lunfardo, per dar luogo a ornamentali neologismi che si inscrivono direttamente in quest’ultima lingua popolare.
L’impasto inusitato, che a volte sfocia magicamente in un ermetismo piuttosto refrattario alla presa interpretativa, porta con se grappoli iridescenti di immagini metaforiche che s’inseguono sia depositandosi, in una sorta di sostanza tattile nello spazio della visione, che evaporando, diffusi in aromi imprendibili di pura musicalità. Solo i suoi temi centrali conservano un diorama sulla poetica edificata dai precedenti autori del tango di cui Ferrer è un sincero ammiratore, come Enrique Santos Discepolo, Homero Manzi, Catullo Castillo, Homero Exposito; per il resto la profondità biologica dei simboli e la densità delle informazioni culturali si succedono nitidamente in un moto perpetuo che transita tra un’opacità ed una trasparenza assolutamente nuovi per il genere.
Seguendo queste inclinazioni, Ferrer ci parla di un nodo chiave della coscienza del moderno: lo scontro tra i sogni ed il reale, da lui realizzato con una parola che emoziona e turba, circolando tra chiarezza ed enigma per scardinare audacemente le relazioni con il topos realistico in cui anche i più significativi parolieri del tango classico si sono mossi con dignità letteraria e stile armonioso. I suoi versi superano qualsiasi programma in cui si rispecchi il cosiddetto “brodo sociale”, giungendo “alle frontiere dell’illimitato e del futuro” (Apollinaire), fino nel cuore del “divino carattere utopico” (Baudelaire) della poesia.
Lui, come tutti i veri artisti, sa che tra la notte ed il giorno della coscienza, c’è una terza regione che è quella dell’immaginario, una regione fluida, mai decisa né stabile, regno di tutte le possibili lanterne magiche e fate morgane. Proprio quello che scaturisce dalla frequentazione di questa zona d’ombra meravigliosa è il contributo innovativo che Ferrer porta nel tango, precipitando la quintessenza della sua visionarietà fantastica nell’appassionante vicenda musicale creata con la musica di Astor Piazzolla.
Ma se Ferrer diventerà praticamente la sola voce poetica del Piazzolla maturo, Piazzolla sarà il musicista più amato ma non l’unico a cui si rivolgerà l’opera di Ferrer: tra le firme con cui il poeta ha collaborato non poteva mancare quella di Anibal Troilo, che si aggiunge a quella di un altro troileano, Raul Garello, a quella del figlio di Piazzolla Daniel, e a quella di Horacio Salgan con cui ha scritto il testo per un’opera ambiziosa e riuscita come l’ Oratorio Carlos Gardel. Quando Piazzolla conosce Ferrer, nel 1955 a Montevideo, è sorpreso di scoprire l’esistenza del Club de la Guardia Nueva interessato alla sua musica d’avanguardia, ma soprattutto non immagina che il suo presidente potesse essere il poeta atteso, quello in grado di creare una nuova scrittura ipersensibile ed adatta ad essere iniettata nel fuoco magnetico della sua musica.
Spirito danzante anch’egli, Astor Piazzolla già in quell’anno dimostrava la sua inquietudine ed insofferenza in un mondo del tango che aggiungeva alla sua decadenza una posizione di chiusura ed insensibilità verso le sue aspirazioni di stravolgerne i contenuti. In Ferrer, Piazzolla avrebbe trovato il partner ideale con cui coltivare da nuove prospettive la sua passione per il tango cantato, ereditata dall’influenza artistica che ha avuto su di lui Anibal Troilo: il giovane poeta era in grado di sottolineare come nessun altro l’evidenza plastica delle sue melodie, svelando il segreto della loro vocazione pittorica ed il senso di vertigine liberatoria esercitata nella loro scrittura. Proprio come il fueye di Piazzolla, i versi di Ferrer appaiono abitati da un’ineguagliabile forza sonora e ritmica, ma anche dal suo rovescio soave e melanconico: come un bandoneon il poeta li apre, li chiude, toccando i timbri più foschi o scoccando leggeri raggi lunari; li torce in spire sinuose disegnando fughe veloci di scale; li intreccia in volute bizzarre per abbandonarsi un attimo dopo ad un respiro di incanto acquatico.
Con Ferrer, Piazzolla dava origine ad una nuova estetica del tango cancion, vivificandolo con un’immaginazione funambolica e spingendolo oltre, fino al delicato concetto di libretto per il teatro musicale, come è accaduto per Maria de Buenos Aires. Proprio con questa operita nasce nel 1967 la mitica dupla Piazzolla-Ferrer, collezionando, da lì alla scomparsa del maestro di Mar del Plata, un carnet di settanta composizioni. La collaborazione d’esordio è il manifesto di una sfida musicale e letteraria dove viene catturato tutto un mondo di percezioni e sentimenti, disegnato da Ferrer con un caleidoscopio di sofisticati meccanismi interni, cullati dall’opulenza delle metafore e dalla sapienza dei rimandi: da un centro che non c’è verso i lati e viceversa; dalla superficie alla profondità delle pagine concepite come trasparenza l’una sull’altra e mosse in tutte le direzioni dall’orchestrazione prosodico/tematica. Il poeta lascia parlare i segni con assoluto empirismo, fino a sovrapporre con la massima semplicità strati dove ogni idea, oggetto, evento, insomma ogni significato, non sono che “passanti”, apparizioni nella natura del linguaggio.
Il musicista allestisce tutta una serie di doppifondi e di specchi curvi in cui si proiettano diverse dimensioni sonore, dalle più rarefatte alle più materiche, facendo risuonare la forza sanguigna del tango, la pulsazione speziata della milonga campera, la delicatezza lunare del vals, alternanti in alcuni casi nello stesso brano. Sviluppandosi in un unico dispositivo di pluralità simbolica, la musica e la poesia della Maria de Buenos Aires mettono in evidenza come i due artisti abbiano subito trovato per il loro stile la cifra dell’equilibrio, esibendolo come la misura esatta a rendere narrative le melodie e musicali le parole.
Anche tutte le opere successive dei due, si fonderanno su un circuito di riferimenti interni ed esterni, tutti al servizio di uno scenario offerto allo sguardo nella doppia valenza di uno stato diverso di visibilità: come sostanza visiva e come forma mentale. Sotto i filtri di questa maniera, la loro arte è arrivata a confessarsi e decantarsi: a risolversi nell’opera nuova corrispondente allo spirito della Buenos Aires contemporanea, alla sua energia metropolitana, febbrile e illusoria.
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