MARIA CALLAS, VOCE ASSOLUTA
“Tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poi essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia”. Questo pensiero delicato scaturito dalla sensibilità di un poeta quale Pasolini, sintetizza alla perfezione le complessità che si incontrano nel tentativo di disegnare un profilo della figura di Maria Callas, pietra preziosa frantumata in schegge esistenziali, professionali, amorose. Come suggerisce il poeta abbiamo la fortuna di aver ereditato quel materiale più duraturo di quello della vita che sono le sue registrazioni, vero e proprio corpus poetico che ancor oggi irrompe nei salotti imponendo il suo clima, le sue tempeste e i suoi uragani attraverso i sofisticati impianti hifi dei melomani e non solo. Per chi volesse provare l’emozione, questa nota intende informare che la Biblioteca Sormani di Milano custodisce nelle sue raccolte un numero sufficientemente esauriente di titoli in cui la Divina può incantare le anime che desiderano prestarsi al suo ascolto, sia nelle postazioni disponibili presso la sede della biblioteca che servendosi del servizio di prestito a domicilio. Le registrazioni non deludono le aspettative, e seppur in molte circostanze sono state realizzate con strumenti dell’epoca e dal vivo, quindi non proprio ad alta fedeltà, la fonogenia della Callas non è compromessa. Appena la sua voce alza il sipario del proprio teatro, l’ascoltiamo proiettare tutta l’anima nell’incanto del suono che ci coinvolge impadronendosi dei nostri cuori. Per questa sua irraggiungibile arte, Maria Callas rimane nell’immaginario collettivo una tra le figure femminili più leggendarie del ventesimo secolo anche nel contesto del costume, quindi al di là dell’ambito musicale e musicologico.
Un mito contemporaneo che neppure i ferrei strumenti della filologia, quelli della più intransigente critica musicologia e quelli di un meticoloso spoglio documentario sono riusciti a demistificare. Restringendo il breve commento al perimetro specialistico, va rilevato che il suo irraggiungibile talento vocale, ha innumerevoli meriti. Il primo è stato quello di riscoprire un repertorio particolarmente eccentrico, riprendendo l’antico Gluck o i desueti Spontini e Cherubini, il Donizetti di Anna Bolena e Poliuto, il Bellini del Pirata e soprattutto Rossini, sia quello serio di Armida che quello buffo dell’affascinante Fiorilla del Turco in Italia, o della divertente Rosina in Il Barbiere di Siviglia. E proprio le sue interpretazioni delle opere del compositore pesarese, hanno dato un contributo fondamentale alla Rossini Renaissance, anche perché attraverso i suoi gorgheggi scorrevoli dalla nitidezza incantevole, le parti di agilità riprendevano il vigore, il mordente e la forza penetrante con cui lo stesso autore le aveva immaginate e desiderate. In questo quadro la cantante è stata la promotrice di un’autentica rivoluzione musicologica, proponendo lo svecchiamento del repertorio classico e protoromantico.
Ovviamente non si è trattato solo di una questione di repertorio ma delle modalità con cui questo è stato affrontato, affrancandolo dal sistema di convenzioni in cui era ingabbiata la prassi esecutiva in voga fino a quegli anni. Nell’estetica della Callas l’intenzione espressiva era quella di superare l’edonismo vocale parificando l’importanza della tecnica vocale con i fondamenti della cosiddetta “scenica scienza”, raffinata con Luchino Visconti e appresa inizialmente dalla celebre cantate iberica Elvida de Hidalgo, sua insegnante durante gli anni ateniesi di formazione. Questa scelta di indirizzare tutto il catalogo del virtuosismo di coloratura, a finalità che lo sottraevano al pericolo di diventare anacronistico funambolismo circense, misurava la sua profonda comprensione del rapporto tra parola e musica, riscoprendo la parola drammatica o tragica attraverso il canto. In lei, canto e musicalità si limitano a essere dei presupposti messi al servizio del teatro; la Callas è, prima di tutto e in fondo a tutto, un fenomeno drammatico che recita la situazione come un fenomeno vocale di musicalità istintiva, proiettando i sentimenti e articolando le frasi musicali perfettamente con accelerazioni o ritardi, necessari ad illuminare dettagli da sempre contenuti nella partitura, ma mai evidenziati da altri, colorando il proprio timbro, variando il volume della voce, fondendosi nell’orchestra o decidendo di tirarsene fuori.
Perciò i suoi personaggi venivano rappresentati secondo la loro natura psicologica, seguendo religiosamente le indicazioni di una figura che proprio negli anni cinquanta iniziava ad affermarsi anche nel teatro musicale: quella del regista. Con la Callas il bel canto insieme a tutta la sua ornamentazione di picchettati, trilli e mezzi trilli, gruppetti e scale, riprende vita coniugato in una nuova prospettiva drammaturgica, interpretando ad esempio il personaggio di Lucia, l’infelice sposa di Lammermoor, senza incorrere nell’algido virtuosismo con cui si sfidavano i soprani di coloratura. Ma il risultato più eclatante di questa prassi riguarda i vocalizzi nella Norma ai quali la Callas con il suo imponente physique du rôle, ha saputo dare un significato di espressione, reintroducendo lo stile tragico, anzi “sublime tragico”, secondo una locuzione di Bellini. La lettura che fa di questa sacerdotessa dei druidi porta la sua voce duttile, chiara e morbida ad accenti commossi e sfumature sottili che non hanno facili effetti plateali neanche nei vocalizi, applicando anche il rubato, che è un segno d’espressione di solito consacrato alla pratica strumentale, e utilizzando i silenzi come forma teatrale del canto.
Uno spettatore particolarmente raffinato come Arbasino scriveva sulla Callas che “le sue Norme, le sue Medee indimenticabili, parevano uscire fiammeggianti e dannate e altere da testi tedeschi terribili, che indubbiamente lei non aveva mai letto. E questo è vero genio”. Così il belcantismo della Callas ha conquistato i ruoli dei titoli più impegnativi che richiedono una vocalità incandescente, liquida, dilagante, forgiata da una tecnica illuminata. Con questa ha potuto dominare la sua estensione ampissima modulando la voce in suoni variopinti, ora più forti, ora più esili, ora più scuri, ora più chiari, con dinamiche di forza prometeica in grado di smorzarsi per esprimere sentimenti apollinei. Se le primedonne di cartello sono capaci di trascolorare dal sopracuto al grave, dall’agilità alla melodia spianata, guadagnandosi tutte il titolo di “soprano assoluto”, la Callas è molto di più in quanto il suo registro non è soltanto quello di un soprano, ma è pure da mezzosoprano e forse da contralto. Per questo motivo le categorie adottate dalla musicologia tradizionale saltano. Soprano o contralto acuto? Voce drammatica o lirico-leggera?
Maria Callas infatti non è soltanto un soprano drammatico di agilità secondo la formula ossimorica ideata nel 1977 da Leonardo Bragaglia che la paragona soltanto a Maria Felicita Malibran e a Giuditta Pasta. La sua è la “voce assoluta” che sembrava scendere dal cielo, o provenire da “un vuoto del cosmo”, come scrive poeticamente Pasolini. Utilizzandola con un fraseggio imperioso, la Callas ne moltiplicava il fascino appoggiandosi ad un magnetismo da autentica tragédienne che dimostra la sua rara duttilità nel muoversi sulla scena con proprietà e naturalezza, anche nei ruoli più dissimili, facendo scaturire il suo gesto scenico sempre dalla musica e proprio per questo rendendolo vero per la gioia dei registi e del pubblico. Pensiamo come nei panni di cantante wagneriana, sia riuscita a sottolineare l’importanza del colore e del peso vocale, conferendo alla sua Kundry qualcosa di soprannaturale, di stranamente gutturale, sinistro, ma di una diabolicità che sapeva riscattarsi in misticismo nelle eco delle mezze voci più metafisiche.
E subito dopo riflettiamo sulla naturalezza con la quale si è adattata alla vocalità di soprano Falcon prescritto per il repertorio francese, o sulla leggerezza maliziosa delle sue nouances seduttive da rossinianista di razza e ante diem; o ancora nella precisione con cui ha definito il valore musicale e drammaturgico del recitativo e dell’arioso nel repertorio neoclassico; nella sensibilità con cui ha differenziato le tipologie di agilità nel repertorio belliniano; nella funzione espressiva della coloritura per i personaggi donizzettiani; nella centralità del canto di conversazione in Puccini; nel senso della misura e del buon gusto nelle opere veriste. E ascoltandola in questo cantare amori e tradimenti, follie e sacrifici, passioni e tormenti, gioia e ironia, sorriso e leggerezza, vestendo i panni psicologicamente complessi di regine, sacerdotesse e maghe, creature semidivine fondamentalmente lontane dal comune sentire umano, Eugenio Montale la definì nel 1955 “mai uguale a se stessa”.
Tra Medea e Armida, Norma e Lady Macbeth, Giulia e Anna Bolena, nelle sue corde ha avuto ruolo privilegiato un autore amatissimo: Giuseppe Verdi, affrontato con interpretazioni geniali dove all’agilità di forza e al valore delle variazioni nelle sue prime opere, si sostituisce la nobiltà del fraseggio delle opere mature: tra tutte un indimenticabile Rigoletto pubblicato dalla Cetra e registrato dal vivo nel 1952 a Città del Messico. Nonostante ciò, sulle questioni legate alla sua voce alcuni critici di razza si sono dimostrati impietosi fermandosi ad analizzare certe caratteristiche naturali che incidevano negativamente se giudicate secondo parametri normalizzanti e meno aperti all’emozione di quanto non lo fosse il pubblico, seppure in un primo momento i fedelissimi dell’opera di fronte alle sue creazioni, abbiano provato una sensazione di spaesamento. Ma quei difetti indicati come inerenti allo smalto e a un impasto poco vellutato che dava alla voce zone aspre e opache, sono diventati per la Callas punti di favore per trovare un proprio colore timbrico inconfondibile che la rendeva unica accompagnandosi all’eccezionalità di una voce enciclopedica rispetto a vari aspetti a partire dall’alchimia di una estensione prodigiosa in cui coabitavano, come già ricordato, il registro di soprano e quello di contralto, facendola salire comodamente nel «cielo» angelico dei sovracuti e tuffarsi con altrettanta facilità nelle profondità espressionistiche del registro basso, con volume, intonazione, agilità, correttezza del legato e credibilità attoriale.
La Callas oltre a queste doti poteva vantare anche una virtù ulteriore, e assolutamente singolare, che gli permetteva di volare altissima, da un’eroina all’altra anche a breve distanza con trasfigurazioni caratteriali che fino allora erano considerate inconciliabili se affrontate in un breve lasso di tempo. Esempio tra tutti quello che accadde nella leggendaria stagione romana del 1950, quando la Callas nell’arco di un mese portò in scena la Norma e il Tristano e Isotta, oltre, naturalmente alle relative prove di scena, di canto e una recita dell’Aida al Teatro Grande di Brescia! Proprio in quell’anno e con Aida la cantante iniziò la sua collaborazione straordinaria con il Teatro alla Scala che per lei è stata la casa artistica e che la proclamò sua regina ergendola al rango di simbolo dell’opera lirica italiana. Il rapporto con il teatro milanese durò fino al 1958, con qualche exploit estemporaneo che lo ha protratto al 1961. E fu il pubblico scaligero ad avere il privilegio di assistere nell’anno dei miracoli, il 1953, alla Medea di Cherubini diretta da Leonard Bernstein con una Callas ipnotica che indirizzava la sua interpretazione magistrale nel cuore della tragedia greca.
All’apice di una carriera vertiginosa, nessuno poteva immaginare che già dalla fine del 1954 qualcosa avrebbe incrinato precocemente la voce della Diva, aprendo un mistero che ha contribuito ad alimentarne il mito. Si sono fatte varie ipotesi, a partire dalle cause psicosomatiche citate dalla stampa scandalistica, fino a quella ascritta al vertiginoso dimagrimento che ha fatto perdere alla giunonica cantante, era alta 1 metro e 72 centimetri, una quarantina di chili tramite una folle, pubblicizzatissima dieta. Ma probabilmente la questione più grave riguardava l’insorgere di una malattia rara e dal decorso progressivo quanto irrimediabile, la dermatomiosite che colpisce il tessuto connettivo provocando infiammazione e distruzione dei tessuti della pelle e dei muscoli scheletrici, con conseguenti difficoltà respiratorie e cardiache. A tutte queste concause più o meno determinanti è necessario aggiungere quella di uno stile di vita che per tutta la durata del suo secondo matrimonio, ha visto la cantante smarrire il rigore nello studio e nell’esercizio della voce, a vantaggio di una vita mondana da star cinematografica, divenendo nel teatro d’opera l’alter ego della sua amata Audrey Hepburn di Colazione da Tiffany, Sabrina, Vacanze romane.
La sua figura più in sovrappeso e inelegante, come nel 1952 durante la produzione della Gioconda, caricata per di più con gioielli pacchiani fatti con grandi pietre comprate in Brasile, era diventata di una bellezza oltre le mode, con una silhouette proporzionata e valorizzata dai meravigliosi abiti tutti firmati Biki. I rotocalchi più diffusi moltiplicavano la sua gloria senza eguali fino a trasformarla in una icona adorata anche nell’ambito Camp. La nuova Maria Callas si presta alla teatralizzazione della sua vita privata: la sua casa diventa un palcoscenico, dove in reportage fotografici e breve filmini recita la parte della diva appagata, della moglie soddisfatta, della signora elegante perfettamente inserita in società. Ma non è così e tutte queste circostanze, che iniziano a incidere al termine del 1954, peggiorano lentamente ma implacabilmente, facendo insorgere la consapevolezza artistica di non essere più all’altezza e quindi aggiungendo lo stress psicofisico legato a questa penosa sensazione.
Dopo soli 13 anni la sua luminosa carriera era minacciata da un un tramonto che la Callas si ostinava a non accettare. Ma nell'insistere sullo stesso repertorio era riuscita a escogitare una “seconda maniera” dove una travolgente attorialità compensava lo scricchiolante dominio della voce nel riproporre cavalli di battaglia come Norma e Tosca, divenute per lei opere troppo impegnative vocalmente. A proposito Pasolini scrive: “Ella cantò, come una disperata, non risparmiandosi, / capace di morire, malgrado lo studio e i calcoli”, sottolineando la disperazione in cui era precipitata l’amica così precocemente abbandonata dal proprio formidabile strumento sonoro. In definitiva il percorso artistico davvero significativo che iscrive Maria Callas nella storia della musica, ha una parabola iniziata con La Gioconda del 1947 all’Arena di Verona e che già dal 1959 è in procinto di esaurirsi. Da allora le sue apparizioni hanno cominciato a diradarsi con qualche strascico negli anni sessanta, per concludersi nel 1965 quando calerà l’ultimo sipario sulla Tosca al Covent Garden di Londra. Nel frattempo il matrimonio con il Tycoon greco Aristotele Onassis si era malinconicamente concluso e la voce che gli restava era ormai stanca e per giunta malferma nell’intonazione.
La Callas che nel frattempo aveva perso l’abitudine necessaria a prepararsi con rigore meticoloso, ha continuato ad apparire in pubblico proponendo i suoi recital, fino ai 47 concerti della sua tournée di commiato a cavallo tra la primavera del 1973 e autunno dell’anno successivo. Dopo, i fiori lanciati dai fans in delirio sarebbero restati un ricordo. Maria si era rinchiusa in un silenzio triste tra i suoi cimeli e le fiammeggianti incisioni delle sue prorompenti performance che documentavano il carisma imperiale dei suoi anni migliori, mentre tutto stava precipitando riaprendo l’antica ferita di un’infanzia segnata dal sofferto rapporto con la madre.
Seppellita nel suo buen retiro parigino di Rue Georges Mendel, dove s’erano consumate le disperate stagioni del declino, Maria moriva o si lasciava morire nel settembre del 1977. Come tutti i miti e le icone tragiche anche la Callas lascia aperte interrogazioni a cui nessuno può rispondere con certezza, a partire del giorno della sua nascita al Flower Hospital di New York, per finire con le misteriose ragioni della sua scomparsa prematura. Per concludere da dove avevo iniziato, cioè dalla tenera relazione della Callas con Pasolini, due domande irrisolte le lasciamo a Lei che le formula l’anno dopo la sua interpretazione della Medea cinematografica del 1968, quando da un aereo delle Olympic Airways, scrive su un biglietto indirizzato all’amico regista: «Caro, ti scrivo dalle nuvole. Sembra proprio un tappeto bello, soffice da poterci camminare sopra. Per dove? – mah?»
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