AL PASSAGE CHOISEUL, TRA IL TORMENTATO LUIS-FERDINAND E LA SPLENDIDA SOPHIE

 


Nel contesto urbanistico della Rive Droite al centro di Parigi, i passages rappresentano nicchie di privilegiata decadenza dove il tempo sì è come conservato, custodendo la quiete, la poesia, l’estetica che hanno sottratto il loro spazio ai frenetici processi della globalizzazione. Processi innanzitutto di natura politica, colpevoli di incidere su quelle che erano le unicità peculiari della città moderna, al servizio dell’egemonia di un pensiero economico volto a stemperarne i caratteri, per affermare il modello della vita sociale e dei consumi nella città contemporanea in favore del profitto richiesto dalla finanza e dalle multinazionali. Questa triste e montante prospettiva di omologazione sembra magicamente restare fuori dai passages coperti da lucernari di vetro che sono apparsi intorno all’alba del XIX° secolo e che nel tempo si sono moltiplicati fino ad arrivare alla cifra di 250, distinguendosi per l’eclettismo innovativo della loro forma architettonica e per il ruolo sociale che hanno ricoperto. Dopo la rivoluzione urbanistica propiziata da Hausmann, ne erano rimasti sessanta che hanno ispirato scrittori quali André Breton, Paul Morand, Walter Benjamin, o fotografi altrettanto significativi come sono stati Eugène Atget, Charles Marville, Robert Doisneau. Oggi il loro numero è ulteriormente diminuito riducendosi a 15, ma finalmente tutti protetti dal sostegno della municipalità che sostiene le attività commerciali affacciate lungo il loro percorso, consentendo ai parigini e ai visitatori di beneficiare della loro vitalità calma, incontrando lo spirito di quella ville lumière che li utilizzava ancora un sistema di lampade a gas, inventato dall'ingegnere Philippe Lebon per essere attivato nelle ore del giorno in cui l’illuminazione zenitale non era più sufficiente. Tra questi antenati dei centri commerciali è sopravvissuto il Passage Choiseul in cui, tra i diversi negozi e fino al 1963 c’era la celebre libreria di Alphonse-Pierre Lemerre, un ex contadino che per una ventina di anni ha avuto come commesso e correttore di bozze niente di meno che Anatole France, il quale dalla sua posizione ha potuto permettersi di rifiutare la pubblicazione di L'après-midi d'un faune, il capolavoro assoluto di Stephane Mallarmé che avrebbe ispirato il il meraviglioso Prelude à l'après-midi d'un faune composto da Claude Debussy. 




Nel suo mezzanino Lemerre ospitava ogni pomeriggio i tumultuosi incontri dei giovani poeti parnassiani, ma soprattutto ha avuto il merito di essere stato un editore importantissimo e il primo editore di Paul Verlaine che per i suoi tipi pubblicò (…per la verità a proprie spese) i suoi Poèmes saturniens, stampati in 491 esemplari su pergamena bianca del formato in-12 dall’insigne tipografo Damase Jouaust (oggi questo libro è quasi introvabile e una sua copia, corredata da una lettera autografa che Victor Hugo ha inviato al poeta, è stata aggiudicata ad un’asta di Christie’s…per 85.000 euro!). Restando in campo letterario, immagino che i céliniani più curiosi e informati in visita a Parigi non avranno certo mancato di raggiungere il II° arrondisment per attraversare i centonovanta metri del nostro Passage Choiseul, realizzato nel 1825 dall’architetto Antoine Tavernier. E dico informati perché è necessario essere a conoscenza che nella realtà è proprio questo il passage ribattezzato dallo scrittore come Passage des Bérésinas e descritto in Mort à crédit. Questo è il titolo del suo secondo romanzo-autobiografia pubblicato da Denoël e Steele e arrivato nelle librerie il 12 maggio 1936.




Un capolavoro assoluto dove lo scrittore mette le basi di una poetica fondamentalmente e risolutamente antiproustiana affrontando lo stesso argomento della Recherche, l’infanzia e la memoria. Infatti i ricordi infantili sono evocati al protagonista del romanzo e suo alter ego Ferdinand, non  dal gusto delizioso e dal profumo fragrante di una madelaine come accade a Marcel, alter ego di Proust, ma dalla sofferenza scatenata per via di una serie di traumi e da una febbre che sfocia in delirio. Quel delirio che per Céline è la via d’accesso preferenziale verso la verità e si manifesta con l’audacia grammaticale, l’originale ricchezza del lessico e il potere poetico della punteggiatura, in una scrittura incomparabilmente truculenta e feroce, capace di passare con non chalanche dall'orrore al grottesco, ricordando Beaumarchais per quel modo molto francese di prendere sul serio le cose banali e le tragedie reali senza perdere il senso dell’humor. In Mort à crédit quel passage è descritto come il luogo insalubre dove ha patito un’infelicità personale durata tutto il periodo della sua permanenza lì, prima in un appartamento al n° 67 e successivamente al n°64, dove la madre Marguerite Guillou-Destouches gestiva la boutique de nouveautés che proponeva alla clientela i suoi merletti (e a proposito di boutique è qui che al n°24 lo stilista Kenzo ha aperto il suo primo atelier chiamandolo Jungle Jap). 



A parte l’illuminazione a gas delle lampade Auer che tanto infastidivano il piccolo Luis-Ferdinand per via del penetrante odore sulfureo che emanavano, (sui Cahiers Céline 2 lo scrittore appunta: “sono cresciuto al Passage Choiseul nel gas di 250 ugelli luminosi. Gas e schiaffi, questa era l'educazione ai miei tempi»), oggi il passage non è molto diverso da quello che lui ha lasciato nel 1907, quando con la famiglia ha iniziato il vagabondare che gli ha fatto trascorre l'adolescenza all'estero, di pensione in pensione: prima in Germania quindi in Inghilterra, dove fu residente in due collegi dal febbraio al novembre 1909, prima di ritornare a Parigi nel 1910. Se qualcosa poteva alleviare il ripugnante e “sorprendente” disgusto per gli adulti che provava il futuro Céline nelle sue giornate trascorse sotto la luce artificiale del Passage Choiseul, era la musica che trasformava lo spazio in una specie di cassa di risonanza permanente attraversata ad ogni ora del giorno dalle canzoni canticchiate da ignoti passanti, dalle voci nasali che uscivano dal negozio di un commerciante di grammofoni, ma soprattutto dalle "voci incantatrici" provenienti dalla ex Salle des Bouffes-Parisiens, realizzata per volontà di Jacques Offenbach nel 1855 affinché diventasse il tempio dell'opera buffa e dell’operetta che è riuscito a diventare. 


Salle des Bouffes-Parisiens alla fine dell'800

Questo mescolarsi di canti trasportavano l’immaginazione del piccolo Luis-Ferdinand a fantasticare oltre la vita quotidiana confinata nell’”ignobile asfissia” del passage, vagheggiando sulle dive, sui pezzi di bravura e sui sontuosi allestimenti delle opere comiche, proprio per effetto di alcuni frammenti di melodie cantate in quel repertorio considerato minore ma di rotonda fortuna popolare: tra tutte La Périchole, Manon, PhiPhi, Véronique, Les Cloches de Corneville, Fortunio, Miss Heylett. Nel resoconto che Céline inserisce in  Mort à credit, viene menzionata proprio quest’ultima operetta in 3 atti di Maxime Boucheron e Edmond Audran…”suonavano sempre Miss Helyett con lo stesso tenore: Pitaluga…”, di cui più avanti si legge un lusinghiero giudizio critico: “era una voce incantevole”… “ogni anno ancora più delirante, meglio intessuto, più soprannaturale…”. Non è dato sapere se Céline ha deciso di cambiare deliberatamente il registro del cantante menzionato, che in effetti non è quello di tenore ma di baritono, e neppure se giochi a storpiare volontariamente il suo cognome rispetto a quello vero che era Piccaluga. 



La sua era una tra le voci che riuscivano ad attraversare i muri del teatro raggiungendo lo spazio adiacente al N° 67 del passage, dove, oltre a esserci l’appartamento in cui la famiglia Destouches ha abitato, c’era (e c’è tuttora) l’uscita secondaria dello splendido Théâtre des Bouffes-Parisiens che ha il suo ingresso principale al numero 4 di Rue Monsigny e che aveva preso il posto della precedente Salle, offrendo il trionfo dei suoi luccichii rococò all’esuberanza del pubblico borghese della Belle Epoque. Anche questo teatro è citato da Céline ma ribattezzato come “Grenier-Mondain” e indicato orgogliosamente come il “nostro teatro”. 




Un teatro rinomato che ha visto esibirsi sul suo palcoscenico, oltre ad Albert-Alexandre Piccaluga, un lunghissimo elenco di celebrità tra le quali Maurice Chevalier, Arletty, Jean Gabin, Michéle Morgan, Jean Marais, Edith Piaf, Jeanne Moreau, Alain Delon, Jeanne Birkin, Patrice Luchini, Fanny Ardant…. Sophie Marceau. Quando lo scorso settembre sono ritornato a Parigi, ho colto l’occasione per andare al Théâtre des Bouffes-Parisiens dove ho potuto assistere alla pièce che vedeva il radioso ritorno della Marceau sul palcoscenico teatrale dopo dodici anni di assenza. Il soggetto della commedia in cui è stata protagonista riguarda il silenzio, quel silenzio che si insinua e si moltiplica giorno dopo giorno in una coppia incapace di ascoltarne le ragioni, come accade a chi osserva diligentemente de leggi della morale borghese, nonostante il peso logorante di un ménage quotidiano implacabilmente efficace nell’erodere la relazione. Il sipario si apre sulla scenografia di un salotto blu Klein che stilizza un ambiente accogliente e sufficientemente spazioso per ospitare il pianoforte a coda della padrona di casa (Maud interpretata dalla Marceau), con i decori ideali a rappresentare il gusto borghese dei suoi proprietari. Ma già nella prima scena l’autrice di questa commedia brillante e malinconica va al cuore della questione: il silenzio. Il pianoforte non è lì per farci ascoltare una qualsivoglia melodia, bensì per assistere all’imminente suicidio di Julien, il marito di Maud (interpretato da François Berléand). Julien, che è uno psicanalista tanto affermato quanto depresso, non è riuscito a scrivere neanche il classico biglietto d’addio alla moglie, la “note” con cui la moglie avrebbe appreso l’origine di quel gesto definitivo e lo avrebbe potuto spiegare ai figli, agli amici, alla governante…. E a testimonianza del suo ultimo fallimento, sotto il pianoforte Julien ha accumulato un mucchietto di foglietti appallottolati. L’uomo è lì, solo con la sua disperazione e già sul seggiolino del pianoforte pronto ad infilarsi il cappio che pende dal soffitto. Ma naturalmente accade un’imprevisto: la moglie Maud ritorna in anticipo da Berlino dove era stata incoronata come migliore pianista dell’anno. Il suicidio è scongiurato ma Maud, splendida nel suo smoking nero, si infuria con Julien perché il marito non si è preso cura di lasciare “la note”.  Durante la notte che segue i due coniugi aprono il vaso di Pandora iniziando a parlarsi e quindi a rompere quel muro di silenzio che li aveva separati accompagnando la loro routine di coppia matura, agiata ma senza sorprese. Audrey Schebat, autrice e regista di questa commedia che ha intitolato “La Note” , prendendo spunto dal biglietto di giustificazione che Julien non ha saputo scrivere, agisce con maestria drammaturgica nel radiografare il malessere che ha divorato i presupposti della storia in cui sono coinvolti i suoi due personaggi. 


Sophie Marceau e François Berléand

Con grazia elegante e finezza d’intelligenza, viene sezionata fino all'osso la vita dei due personaggi che da molto tempo vivevano fianco a fianco senza quasi guardarsi, o meglio guardandosi senza vedersi. In questa resa dei conti, un faccia a faccia feroce e lucido libera finalmente il dialogo fra  Maud e Julien con parole che colpiscono e in alcuni casi mordono. Nella recitazione fluida, precisa e coinvolgente dei protagonisti, risuona con sincera autenticità il bilancio che i loro personaggi fanno intorno al loro rapporto e anche alla loro vita, con riflessioni e interrogativi metafisiche che giungono dal profondo e gettano una luce di speranza sul buio del loro fatalismo e della loro inerzia. Ne riporto solo due brevi e penetranti: Maud, “tutti aspettano che la propria vita inizi prima che finisca”; Julien, “volevo uccidermi ma non togliermi la vita”. Tra i due personaggi si percepisce un sottile equilibrio, alchimia tra ombra e luce, Maud, divertente e vibrante, risponde a un Julien cupo e sfinito. Nel vortice emotivo delle reciproche confessioni, tra i risentimenti e la rabbia trova spazio anche una dose salvifica di umorismo, mentre le ore trascorrono e nel corso dell’esame dei propri sintomi si apprende che entrambe desideravano essere altro da quello che erano. E’ un punto di partenza comune che non li avvicina ne li allontana, perché finalmente hanno trovato la forza di affrontare la realtà con la consapevolezza che da questa notte il loro destino verrà reinventato: dirsi addio o ricominciare di nuovo? Il teatro è sold out, il pubblico applaude, le repliche previste sono ben 90. Si esce soddisfatti ripercorrendo Passage Choiseul verso la sua uscita in Rue 4 Septembre dove c’è la fermata del metro, imbattendosi in una targa che è l’unica indicazione ufficiale che municipio di Parigi ha avuto l’accortezza di installare per indicare un luogo legato alla biografia di Céline. 




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