La città di Thierry Paquot contro i disastri urbani




Qual'è l'impatto dell'urbanistica di regime che sta globalizzando un modello standard di città? Ce lo spiega brillantemente Thierry Paquot, sedicente filosofo dell'urbanistica, nel suo libro intitolato "Désastres urbains" a partire dall'idea che i grandi rassemblamenti umani delle megalopoli sono dei nidi di solitudine con un devastante impatto ambientale. Il saggio analizza le "grandes ensembles", i centri commerciali, le "gated community" (residenze con l'accesso vietato e sorvegliato da un sistema di sicurezza umano e tecnologico), i grandi progetti, i grattacieli. 






Ragionando intorno a questi cinque punti cardinali, Paquot dimostra che la costante che si può dedurre come denominatore comune è il sistema crudele dove l'abitante è esposto sia ad assoggettamento che a malattie. Nei grandi assembramenti urbani, la gente che ci vive non vive insieme; i centri commerciali non favoriscono alcuno scambio indirizzando esclusivamente al consumo; l'enclave residenziale sorvegliato è una zona di rottura con il resto della città dove vive la gated community in una urbanità selettiva e discriminante; i grandi progetti sono sovente inutili visto che non rispondono ad alcuna necessità dei cittadini ma all'arbitrariato tecnocratico con la sua deriva di speculazione. Infine i grattacieli che prendono anche il nome di "torri", nome che rimanda ad una originaria funzione militare e che oggi rappresentano l'immagine della potenza e dell'inutilità. 


Tokio, 35 milioni di abitanti


Infatti spesso sono legate al nome di una grande impresa industriale come ad esempio la torre del Times o quella IBM: simbolicamente la sua altezza misura la forza economica dell'impresa di cui porta il nome, con i neon che riportano in forma luminosa il nome del marchio, imponendolo alla cittadinanza anche di notte. Torri che sono occupate da uffici dove una moltitudine di persone svolgono il proprio lavoro rischiando di essere colpiti dalla "silk building syndrome", vale a dire una fastidiosa sensazione di vertigine associata ad una certa claustrofobia e a malattie legate alla circolazione sanguigna.

Citta del Messico, 23 milioni di abitanti

In questo quadro Paquot teorizza una urbanistica che riporti al centro la sua vocazione umanistica, quindi indirizzato alla progettazione di città di grandezza media, dove lo sviluppo fisiologico avvenga orizzontalmente e non verticalmente. Accompagnata a questa idea urbanistica c'è anche quella ecologica, visto che il 75% del consumo d'energia e l'80% dell'emissione di gas responsabili dell'effetto serra, provengono dalle metropoli. A questo le Nazioni Unite aggiungono che 4 miliardi di persone occupano il 2% del territorio planetario. 

Sao Paulo do Brazil, 21 milioni di abitanti

La riflessione ha anche un apparato teorico che rimanda all'epoca utopistica del XIX secolo, vale a dire a idee quali quella dei piccoli comuni autosufficenti e autogestiti che vengono proposti da un comunista libertario quale Pierre Kropotkine, oppure le "città paesaggio" del socialista britannico William Morris, o ,ancora, le città-giardino di Ebenzer Howard. Per ritornare sui propri passi, dopo che la situazione è sfuggita di mano in favore di megalopoli con agglomerati multimilionari, bisogna abbandonare l'urbanizzazione massiva con i suoi modelli e i suoi miti, per riprendere un concetto che l'epoca contemporanea ha demonizzato: la casa individuale che riconosciamo oggi come la forma percentualmente più virtuosa nel consumo energetico, sia degli edifici haussmaniani che dei grattacieli. 

Mombay, 20,5 milioni di abitanti

Oggi le abitazioni individuali continuano a fabbricarsi, ma la loro ubicazione è decisamente periferica e in molti casi confina o è inclusa nelle costruzioni popolari su cui sono state fondate le nuove banlieu: in questo caso la loro funzione urbanistica non favorisce alcuna delle tre qualità che Paquot indica come necessarie per "faire ville": l'urbanità, la diversità, l'alterità. Tornando ai cinque elementi che il filosofo analizza nel libro, tutti hanno in comune di essere "inurbaine", di non stimolare la ricchezza delle differenze. la solidarietà e l'alterità che favorisce le interrelazioni tra gli umani e il mondo vivente. Partendo da questa convinzione, la soluzione è quella di riconfigurare i territori urbanizzati al fine di rendere i loro abitanti in grado di riformare democraticamente i loro governi ed ecologizzarli. 

New York, 19 milioni di abitanti

Con questo non viene sostenuto l'abbandono delle megalopoli, bensì un loro ripensamento sull'esempio di città come Chicago e Londra dove, rispettivamente, il 60% e l'80% dei cittadini abita in case individuali. Paquot insiste su come sia arrivato il tempo per inventare un urbanismo della casa individuale, sostenendolo con una vera e propria pedagogia della casa individuale ed ecologica. Con questo non viene ipotizzato un ritorno a villaggi di tipo rurale, ma è piuttosto  incoraggiata la tesi per pensare ad un'urbanismo sensoriale e dell'accoglienza che influisca nella vita di ciascuno. 

Manila, 18,5 milioni di abitanti

Un urbanismo che superi l'idea di densità per offrire un'intensità urbana, vale a dire il piacere emozionale di vivere in una città dove l'urbanismo è la maniera democratica di accogliere le attività dei cittadini nel tempo e nello spazio diventando un vero e proprio cardine dell'arte di vivere. Per avvicinarsi ad un'ideale che secondo lo stesso Paquot non esiste, sarebbe necessario raggruppare comuni o suddividere metropoli in siti con una taglia di un milione di abitanti: sufficienti per ospitare un ospedale, un'università, dei servizi sociali congrui. Seguendo l'esempio dei territorialisti italiani Paquot suggerisce di seguire teorici come Alberto Magnaghi ed optare per la realizzazione di bioregioni disegnate dagli abitanti. 

Giakarta, 18,3 milioni di abitanti

Quello che è certo nell'evoluzione della città moderna è che questa ha seguito il passaggio dal capitalismo "solido" a quello "liquido". Nella prima fase  il padrone di un'impresa si installava, raccogliendo intorno alla sua grande fabbrica la forza lavoro di cui aveva bisogno, sostenendo l'allargamento della città per l'arrivo di un'emigrazione massiva (all'epoca soprattutto interna: si pensi alla Torino di Agnalli o alla Clermond-Ferrand di Michelin). Nell'epoca contemporanea che ha inaugurato la fase liquida dell'intera società, il capitalismo delocalizza e rilocalizza le sue attività, propiziando lo svuotamento delle città ormai post industriali in cui hanno spazio soprattutto i servizi. 

Nuova Dehli, 18,1 milioni di abitanti

Questo comporta che il territtorio non è nient'altro che un luogo tecnico dove si può costruire e subito dopo abbandonare una stazione ferroviaria, degli uffici, degli alloggi, un centro commerciale, una fabbrica. Questa deresponsabilizzazione sul destino di un territorio e dei suoi abitanti è una catastrofe ambientale, che si abbatte su un luogo e sulle persone che lo abitano. Il capitalismo liquido sostituisce il lavoro salariato e garantito con il precariato; la singolarità di un territorio e la sua storia  con l'indifferenziazione ambientale; le popolazioni con la loro capacità ad altre popolazioni più deboli e perciò disponibili nell'accettare retribuzioni da fame. Tutto per produrre un oggetto globalizzato adatto a qualsiasi mercato. 

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