Le iperboli di Mr. Sphere


La musica è l’emanazione dell’anima 
e le forze che la governano
 sono le stesse che governano ogni
 manifestazione dell’anima…
Arnold Schönberg




Quando penso a Monk, spostandomi per un attimo dalla sua musica, mi vengono in mente delle immagini che ho potuto vedere solo attraverso i filmati dei suoi concerti e che mi hanno molo colpito per la loro stravaganza. La prima riguarda quei frangenti in cui  Monk si convinceva ad abbandonare lo strumento per regalarsi una breve passeggiata danzante intorno ai colleghi, mentre i suoi compagni continuano a suonare: secondo lui, in questo modo riusciva a controllare se il “ritmo era giusto”. 
La seconda è legata i momenti in cui il pathos raggiungeva il suo zenit, spingendolo ad abbandonarsi a raptus compulsivi di particolare furore emozionale, dove il suo gesto acquisiva lampi di violenza in cui la tastiera veniva scossa da poderose gomitate. In questi attimi di verità assoluta, salivano palesemente insieme a lui sul palcoscenico, il suo profilo caratteriale ferito da un evidente disagio patologico. 
Era come se queste informazioni sulla sua personalità e umanità, uscissero dall’ombra silenziosa del privato, per interferire decisamente nello svolgersi del discorso musicale. E malgrado questa coltivazione fisica del disorientamento, il messaggio artistico era guidato da una creatività tanto esplosiva quanto lucidissima nell’individuare i suoi obbiettivi estremi. Il traguardo ideale era così personale che Monk si può eleggere, tra i colleghi più irrequieti della sua generazione, come il più disponibile ad incarnare il coraggio e a sfidare l’incertezza. 
Due virtù indispensabili per aprirsi ad un linguaggio inaudito, immaginato con un’essenzialità quasi minimalista delle linee melodiche, riferite a strutture in alcuni casi asimmetriche e appoggiate a sequenze armoniche risolte con naturalezza, seppur con un sistema bizzarro, ancor che legato al sistema tonale-modale in auge nel jazz moderno. 



Entrando più a fondo nel cuore musicale, per tracciare un sintetico ritratto dello stile monkiano, è necessario avvicinarsi al suo pianismo e quindi all’improvvisazione nel quale questo emerge, per giungere a sottolineare il suo talento di compositore, parlando dell’estetica che le sue pagine esprimono come un manifesto programmatico. 
Per quel che riguarda il suo approccio allo strumento, coerentemente con la mistica nebbiosa in cui si delinea la sua posizione smarcata da qualsiasi modello, questo sembra appartenere allo spazio antropologico del rito, partendo dalla postura del corpo e delle mani che contraddicono le prescrizioni di qualsiasi didattica razionale rivolta ai pianisti. 
Infatti, la potenza fonica di questo pianismo antiaccademico, coltivato con una diteggiatura ineducata, ha una valenza simbolica che si incarna nell’esaltazione dell’elemento percussivo, accordandosi all’inclinazione per il necessario e l’icastico. Ne fuoriesce un linguaggio unico, senza alcuna indulgenza, senza passaggi acrobatici, senza nessuna dolcezza di bonbon, né di pasticceria be bop. 
Solo fosforescenza di profili melodici sghembi, spaesanti, asimmetrici, che per molti anni lo hanno costretto a subire l’indifferenza, se non l’ostilità, dei critici e dei colleghi meno pronti a fare un salto in avanti. E qui si apre il capitolo dell’improvvisazione di Monk che inserisce frequenti ricorsi a scale per toni interi, quinte diminuite, mulinelli esatonali, trilli, terzine, spostamenti di accenti, cambi di tempo, cluster, lunghe pause e dissonanze spinte che accrescono la tensione senza risolverla, privilegiando l’uso della mano sinistra. 
Cercando il comun denominatore del suo agire, questo sembra ubbidire a quel dispositivo particolarmente raffinato di rimozione/amnesia dei pattern, che rende diverse l’una dall’altra tutte le sue improvvisazioni ma, insieme, le declina inconfondibilmente con lo stesso pensiero sintetico. In sostanza, abbozzando richiami e evocando rimandi, Monk realizza forse uno dei curiosi ossimori di  Deleuze, cioè la “ripetizione differente”. 
Una delle singolarità di questo artista è quindi l’imprevedibilità di un fraseggio che rimarca la sua espressività, codificando un sistema in cui le improvvisazioni possono essere causticamente spigolose, oscuramente introspettive, volutamente antivirtuose, ironicamente irriverenti, trascendentemente imperfette come fossero scaturite dal genio di un artista involontario. 
Nutrendolo di essenzialità, freschezza e silenzio, il suo linguaggio acuisce con energica incisività la tensione tra le note. La perizia con cui Monk attua questa prassi, precipita con naturalezza le sue creazioni nel vortice delle dissonanze e del perturbante che per gli ascoltatori meno avvezzi  confina con il caos. Queste stranianti miniature, seguono l’ispirazione dai vertici del pathos, alle curve soffocanti dell’angoscia,  accompagnandosi ad un’inquietudine di fondo che sembra testimoniare di quel riconosciuto conflitto esistente tra ciò che domanda l’arte e ciò che esige la vita. 
Se il suo modo di suonare il pianoforte e l’architettura delle sue improvvisazioni danno un saggio di pura visionarietà, l’ascolto delle sue poliformi composizioni ci spinge in un territorio di messaggi ancor più oscuri e di incanti pieni di strani fulgori avveniristici.  
Nel catalogo figurano settanta gioielli, concepiti in simbiotica coerenza con la sua arte di improvvisatore. Ancora oggi, a distanza di generazioni queste pagine, sembrano emanare il profumo dell’inchiostro ancora umido, tanto sembrano attuali. E’ di fronte a loro che intravvediamo il profilo della sua cosmogonia, dilemmatica, instabile, frammentaria, concepita come un provocante e enigmatico rizoma.


Questa radice sotterranea della sua musica, si è sviluppata con la conoscenza sedimentata nella tradizione afroamericana, coniugandosi sotto il segno spavaldo  dell’invenzione permanente che sa rovesciare la razionalità nell’irrazionale. Anche qui Monk se ne frega di aprirsi all’esigenza della comunicazione, come se la sua esperienza di compositore mirasse a finalità magiche, o meglio auto terapiche: quindi estranee a qualsiasi ambizione di essere giudicate come l’opera di un caposcuola. 
Se in alcuni momenti l’ascolto può convincere di essere immersI nelle forme tortuose e simboliche del primitivismo, è necessario sottolineare che non è così e che Monk non può essere ricondotto sbrigativamente al mito del buon selvaggio. Anzi, se desiderassimo azzardare una somiglianza altisonante, potremmo ricondurre il pensiero armonico di Monk alle raffinatissime costruzioni di Webern, quando viene privilegiato il sentimento dello spazio vuoto: tenendo presente che Monk, al contrario dell’insigne compositore appartenente alla seconda scuola viennese, ha un’idea prettamente tonale e solo raramente modale. 
In contrasto con questo sentimento dello spazio vuoto che in Monk acquista il valore di una risorsa essenziale, la musica del pianista newyorkese è punteggiata con improvvisi scoppi di febbrile insolenza, incuranti degli avvertimenti prescritti dalla conosciuta manualistica sull’armonia, quindi incontinenti e audaci artefici di progressioni continue senza punti di riposo, in una prassi modulante che soccorre e svela la mutevolezza dei suoi involontari capricci psicologici. 
Monk non armonizza con sostituzioni di accordi che impreziosiscono il tessuto verticale, ma usa giri armonici semplici: quello che è unico nei suoi principi, riguarda la disposizione degli accordi in colonne astratte di spogli agglomerati dissonanti. Per entrare nel merito è necessario sfiorare per un attimo il linguaggio tecnico, parlando di  caratteristiche quali ad esempio, il frequente ricorso a bicordi formati da seconde maggiori e minori, o l’utilizzo della 11° aumentata sugli accordi di dominante. La portata di questo ragionamento sulla natura armonica delle pagine di Monk, è moltiplicata dal discorso ritmico. Quest’ultimo è disegnato influenzando l’armonia e sommando perciò, un’ulteriore grado di sospensione a tutto l’insieme della musica. 
Esempio lampante di stratificazione metrica a cui sono sottoposti i moduli costruttivi, è una pagina quale Straight, No Chaser che parte dall’idea di semplice blues e conduce la sua coniugazione altrove. Ancor più sperimentale è l’idea fondante di un brano come Evidence,  ricavato dal giro armonico di uno dei standard preferiti quale Just you, just me (lo registrerà per la Riverside) e con una melodia è praticamente assente perché costituita dagli strani accenti ritmici con cui Monk amava accompagnare il brano: operazione che inverte le gerarchie secondo cui la linea melodica è in primo piano, sostenuta dall’armonia e dal ritmo. 



Su questi assi cartesiani Monk abita la distanza, stabilendo il sistema parallelo che è oltremodo palese in un capolavoro discografico come Brilliant Corners, microscopicamente intrecciato con quello dell’armonia jazzistica, ma portatore del virus onirico iniettato nell’opera dei grandi visionari in tutte le discipline dell’arte. In questa opera Monk sferra l’attacco più audace ai canoni riconosciuti del jazz moderno di cui lui è insieme creatore e membro scomodo, capace di suscitare perplessità anche nei colleghi più vicini. 
Tutti i prestigiosi side man invitati all’incisione si trovano in grande difficoltà a seguire i cambi di tempo, richiesti più volte, e ad affrontare una consequenzialità armonica che è sempre pericolosamente in bilico su un precipizio, pronta ad essere risucchiata nel delirio. Molto più difficile fu per gli illustri critici coevi, pateticamente sordi a quella rivoluzione musicale e per di più, incapaci di assegnargli un posto nell’iperuranica regione della cultura musicale afroamericana. Arroccati nella più gelida indifferenza: né recensioni iniettate di miele, né articoli velenosi al curaro. 
Figuriamoci quale poteva essere l’impressione dell’ascoltatore amateur, attraversato da note che risultano spesso curiose nella loro concatenazione, se non addirittura sbagliate di un semitono rispetto all’armonia su cui poggiano. Queste sono le ragioni di una carriera che ha conosciuto non pochi momenti difficili, nonostante produttori estrosi ed illuminati come i patron della Blue Note, della Prestige, della Riverside, che hanno fatto tutti gli sforzi possibili per lanciarlo nell’olimpo del miglior jazz: il successo che tardava a giungere, sarebbe arrivato. 
Ma la vita agiata mai. D’altronde la sensazione che Monk sia uno specialista dell’errore, è ancor più evidente quando affronta le composizioni di altri autori, ridisegnando la melodia, destrutturandole fino a trasformarle in pagine porose e lacunose come quelle scaturite dal suo genio. 
Ma Monk non agisce semplicemente sul linguaggio in quanto tale, bensì interviene sulla nervatura del discorso musicale, rompendo le consuetudini del jazz che nelle sue mani si è trasformato in un laboratorio ininterrotto di esperimenti, dove ciò che conta non è l’ordine formale e rassicurante suggerito dalla convenienza. La sua ricerca insegue e definisce una musica in cui si ascolta la tensione generata tra la tradizione del be bop e la nuda affermazione della propria identità. La prima testimonianza concreta di questo approccio la incontriamo sull’imperdibile disco Riverside intitiolato “Thelonious Monk plays the music of Duke Ellington” (1955), dove la scelta di interpretare il repertorio ellingtoniano ci illumina su quale potrebbe essere la linea ereditaria dalla quale discende  lo stile del pianista newyorkese. 
L’operazione parte da un progetto di rilancio discografico pensato dal suo nuovo produttore Orrin Keepnews, che acquisisce i diritti su Thelonious per poco più di 100 dollari versati alla Prestige che aveva avuto tra le sue fila Monk per due anni, alla fine del suo contratto quinquennale e non certo remunerativo con la Blue Note. 
L’idea di Keepnews è di allontanare gentilmente Monk dalla sua apocalittica vena di compositore incompreso, per offrire al pubblico una serie di successi del grande Duke, riproponendoli in un momento in cui il band leader sembrava essere un po’ abbandonato dal grande pubblico.  Monk accetta con gioia, ma non può che trasformare i capolavori ellingtoniani in una musica profondamente sua, quindi con le stesse problematiche commerciali. L’unica cosa che sembra evocare una somiglianza tra Monk ed Ellington è un certo uso del pianoforte che affonda le radici nello stride piano che ha come capostipite James P. Johnson.  
Certo è un indizio parziale che lascia ampie aree d’ombra su specificità che non possono essere ricondotte ad altro che alla creatività monkiana, irriducibile a qualsiasi divinità tutelare. Ma non finisce qui perché la sua vocazione divinatoria di interprete e di compositore offre un’altra prospettiva spiazzante, sorpresa nella sorpresa: un’insospettata vena lirica che compare in alcuni motivi morbidi ed elegiaci, con istanze di rapimento nostalgico e inclinazione d’animo romantica, come accade per l’insuperabile Round Midnight o per le composizioni dedicate alle sue donne: il primo amore Ruby (Ruby my dear), la moglie Nellie (Crepuscule with Nellie) e Pannonica de Koenigswater (Pannonica), nata nel mondo privilegiato della grande dinastia bancaria dei Rothschild e mecenate di tanti musicisti di jazz: queste ultime, figure importantissime. 
La prima nel privato, la seconda per la protezione nelle relazioni pubbliche e per il sostegno che ha liberato Monk dai problemi prosaici del quotidiano, lasciandolo senza intralci a coltivare le proprie chimere musicali.  Da quando Monk scompare nel 1982, dopo una decade di silenzio artistico, i jazzisti provano indistintamente per la sua musica, un melange di sentimenti in cui convivono l’ammirazione, lo stupore e la curiosità. 
Affrontare le composizioni di questo produttore di creazioni e portatore di creatività, è diventato quindi una sorta di passaggio obbligato della loro professione, e questa attenzione ha fatto proliferare il numero delle rivisitazioni monkiane. 



In alcuni casi virtuosi, lo stimolante materiale di partenza ha dato luogo ad opere spinte fino all’essenza dell’astrattismo musicale; in altri case le manipolazioni meno estreme hanno avuto senz’altro il merito di diffondere la musica di Monk fino ai giorni nostri.
E a proposito di questa musica e della sua funzione, serve dare la parola a questo genio incapace di abbandonare la posizione di outsider. 
Ed è una delle rarissime occasioni in cui la sua uscita dal silenzio ha voluto tentare di descrivere la missione della sua musica e del jazz: “so che la mia musica può contribuire a unire le persone ed è questo che conta… credo che il jazz abbia contribuito più di tutto il resto all'idea che un giorno la parola amicizia possa davvero significare qualcosa negli Stati Uniti". Monk ci ha lasciati più di trent’anni or sono, ma ancora stiamo attendendo che si compia il miracolo di questa profezia.

Franco Finocchiaro

Commenti

Post più popolari