Cicatrices e nouveau roman



“Per me la letteratura è
una proposta antropologica”
Juan Josè Saer



Quando Juan Josè Saer scrive Cicatrices ha 31 anni e in quel 1969 ha già lasciato da un anno l’Argentina per trasferirsi a Parigi, come faranno in seguito tutti coloro che vorranno e potranno sfuggire alla repressione crudele della dittatura militare. Già da questo lavoro la sua statura di scrittore emerge senza dubbi tra le più alte dell’intero latinoamerica, patria antica della novella, squisita forma di narrazione letteraria protagonista di una curiosa storia di andata e ritorno dai paesi del continente australe alla Spagna che li ha colonizzati. Figlio di una famiglia di origini siriane, approdata nella Provincia di Santa Fe tra i tanti immigrati che non hanno scelto di fermarsi a Buenos Aires, Saer aveva trascorso i suoi anni di formazione lontano dalla capitale, in quella regione del Litoral dove è rimasto fino alla destinazione transoceanica che ha scelto come definitiva. Parallelamente alla sua produttiva attività letteraria, coltivata in maniera solitaria e senza partecipare alle speculazioni editoriali che hanno “scoperto” la letteratura sudamericana non senza qualche abbaglio, “el Turco” ha coltivato la carriera accademica insegnando Historia del Cine y Crítica y Estética Cinematográfica alla Universidad Nacional del Litoral, quindi occupando la cattedra di Literatura Latinoamericana alla Universitè de Rennes.

A partire dagli anni ’80, la critica si è accorta che questo autore defilato e stravagante, non poteva figurare nella categoría degli outsider bensì nel ristretto Parnaso degli scrittori di altissimo livello (dopo la pubblicazione di Cicatrices, per merito delle edizioni Nuova Frontiera, seguiranno finalmente altre auspicate traduzioni delle opere di Saer in italiano?). Così, nonostante fosse da molti anni residente a Montparnasse, il suo ruolo nella letteratura argentina del dopo Borges ha avuto una importanza di primissimo piano. In quanto a Borges, con cui tutta la letteratura argentina deve in un modo o nell’altro fare i conti, Saer non ha nascosto la sua profonda ammirazione per il sublime poeta, ma nonostante ciò lo ha anche aspramente contestato nel saggio “Borges come problema”.

Questo studio è in effetti un atto d’amore in cui Saer ha cercato meticolosamente il valore autentico dell’opera borgesiana, ripulendola dal mito popolare e dal suo esibizionismo conservatore, non mancando comunque di accendere una disputa dialettica sul tema del romanzo che il Premio Nobel disprezzava categoricamente: secondo la curiosa teoria di Saer, il rifiuto di Borges per questo genere letterario rappresenta più un’impossibilità che una poetica (o piuttosto un’impossibilità poetica) e a suffragio di questo azzardo dice “se Borges non ha scritto romanzi è perché ritiene, e tutta la sua opera lo dimostra, che per uno scrittore del XX secolo l’unico modo per essere un romanziere è proprio non scrivere romanzi”. Entrando nel merito della letteratura saeriana, alcuni studiosi hanno posto il problema di quale fosse la matrice della sua scrittura, cioè se seguisse la linea espressiva e i contenuti degli autori argentini, oppure se avesse messo le radici nella letteratura francese del secondo novecento.


La risposta a questi interrogativi da un lato è data dall’amico Robe-Grillet che ha visto in Cicatrices un nouveau roman esemplare, sottolineando quindi l’influenza che Saer ha ricevuto da un certo sperimentalismo francese, riscontrabile nella puntigliosa cura non tanto per la trama in sé, ma per la forma con cui questa trama è articolata. Saer insiste su questo tema ossessivamente, curandone tutti i dettagli con la stessa precisione con cui un poeta leviga ogni suo verso. Dall’altro è innegabile l’argentinità della scrittura di Saer che però, al contrario di quasi tutti i suoi colleghi, utilizza scenari assolutamente personali, concentrando le sue opere in un ambiente estraneo a quello metropolitano di Buenos Aires, così seducente e quasi imprescindibile. Il suo universo narrativo si lega a quello del suo imprinting biográfico che è letterariamente vergine: il litorale santasfesino con il suo paesaggio fluviale e piovoso che l’autore battezzò come “la zona”. La combinazione di queste caratteristiche ha testimoniato come l’opera di Saer abbia costituito una modalità di resistenza, di fronte all’abuso delle ricette letterarie che riconducono le opere ad una sostanza indifferenziata. E’ il modo personale di mettere in pratica l’idea cardinale intorno al quale ruota il sistema solare della sua poética. Lui stesso la confessa, suggerendoci di non dimenticare“che la letteratura è prima di tutto un’arte e che è grazie ad essa che proviamo emozioni estetiche”. In nome di questo ideale, di fronte alla cattiva letteratura, alle lusinghe del mercato editoriale e ad alcune posizioni assunte dalla critica, l’autore era capace di incendiare liti omeriche.

Questa visione etica della letteratura è un messaggio palese in tutte le sue opere, dove la prosa espressa con il linguaggio e la sintassi dell’oralità, si coniuga con la poesia realizzando il suo desiderio di "combinar poesía y narración". Una combinazione pericolosa che può raggiungere il suo scopo ambizioso solo se chi la realizza possiede le qualità che possono vantare i virtuosi della penna. Saer è tra questi ed inoltre la sua eleganza proustiana nel descrivere mirabilmente ogni particolare, fa si che nessun virtuosismo risulti inutile o ridondante ma contribuisca all’impresa di contaminare ed amplificare con grazia ogni situazione e i personaggi che la animano. Ogni particolare della materia reale è amalgamato ad una leggera spuma di astrazione, con il risultato di donare al lettore pagine nutrite di riflessi intertestuali che cogliamo nel loro carattere pittorico o ancora meglio in quello che porta il marchio della settima musa, frequentata da Saer sia come studioso che come sceneggiatore.

Proprio attraverso le traiettorie di una scrittura che procede per spirali e che comunque non è inscritta nel cerchio del realismo magico, s’intuisce un paradosso clamoroso: nella sua lente rovesciata Parigi è decentrata alla periferia di un centro occupato saldamente da un luogo che esiste nella personale mitologia nostalgica dell’autore. Questa “zona” coincide con quel lembo di terra santafesina, utilizzata alla stregua del fondale ideale per il teatro di realismo puro, né magico né viscerale, dove si consumano le vicende raccontate da Saer con sensibilità poetica, perfezionismo stilistico, ritmo vigoroso e sicuro.



Sappiamo come la riedizione di un’opera giovanile possa schiudere nell’animo dell’autore un sentimento d’invincibile pudore ma, nel caso della recente traduzione italiana di Cicatrices, il congegno narrativo di Saer è così perfetto da essere in grado di scongiurare qualsiasi imbarazzo da parte dell’autore che qui prende i panni del giornalista Carlos Tomatis per intercalare la narrazione con brani inerenti alla teoria della novella. Il meccanismo di questa opera che seppur giovanile è già maestra, procede in maniera magmatica attraverso un’insuperabile visione che combina la neutralità oggettivista all’unicità di uno stile assolutamente originale, in quello che possiamo definire il “sistema Saer”. Qui, questa prassi coinvolge quattro diverse linee di forza narrative. La loro azione si svolge su un asse temporale che non segue una consequenzialità cronologica e disegna trame che orbitano indipendentemente, salvo che le prime tre hanno un punto di contatto con la quarta.

Le quattro voci soliste di questa raffinata partitura sono il giovane e ambiguo Angel con le sue inquietudini metafisiche, che scrive per il quotidiano diretto da Tomatis; Sergio, avvocato peronista e autore di improbabili saggi filosofici che seguiamo immerso nell’opprimente set del gioco d’azzardo, pronto a perdere ancora una volta; Ernesto, un giudice misantropo che vede gli uomini come dei gorilla e che tra una mania e l’altra è tormentato dalle possibili varianti della sua traduzione del Ritratto di Dorian Gray; Luis, operaio metallurgico che è diventato dirigente del sindacato e fa il resoconto di drammatico primo maggio in cui ha ucciso la moglie. Ed è attraverso la storia di quest’ultimo che Saer porge al lettore i lacci trasparenti e fragili necessari a collegare insieme gli altri tre racconti, dando al complesso del libro la coloritura del poliziesco ma soprattutto regalandoci pagine di rara bellezza.

Quello che sembra essere comune a tutti i personaggi è la necessità di rifugiarsi in qualche passione solitaria che li sollevi dal fallimento della realtà: Angel legge e gioca la biliardo, Sergio scrive e gioca a carte, Ernesto si immerge nell’inutile gioco della traduzione; a Luis, che si dilettava nella caccia ma non ha gli strumenti per estraniarsi intellettualmente, non resta che un doppio atto estremo collocato dall’autore in un giorno profondamente simbolico come è il Primo Maggio. La vicenda si svolge tra febbraio e giugno, mischiando la cronologia nella narrazione, in un’epoca segnata dalla disfatta del peronismo, episodio politico che ha lasciato nel cuore dei protagonisti le cicatrici a cui si riferisce il titolo. L’amarezza, la disillusione e la rabbia di queste ferite rappresentano la materia porosa attraverso cui vengono messe in comunicazione le quattro storie aldilà della semplice coincidenza dei fatti che le lega.

In questa prima e prodigiosa “proposta antropologica” che Saer ha scritto in venti notti ispirandosi ad un fatto di cronaca, i personaggi alimentano la perfetta iridescenza architettonica del testo con la loro umanità, l’elettricità dei propri desideri, il fondo dei loro ricordi e i cupi orizzonti di chi ha poche speranze. Ma l’autore non si limita a questo. Infatti, dal profilo saggistico di alcune considerazioni dei suoi personaggi sull’uso e il significato della parola, Saer ci informa di quali siano le basi teoriche sulla quale è fiorita la sua scrittura magistrale.

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