EDITOR SENZA SCRUPOLI, OVVERO IL MISTERO DI HENRI PICK
Il cinema popolare quando ha i tratti della leggerezza e una formidabile interpretazione degli attori, sa raggiungere il cuore degli spiriti più esigenti come - devo ammetterlo - è il mio, educato al grande cinema e perciò severamente selettivo. E’ quello che mi è successo con Il mistero di Henri Pick, commedia annunciata con gli incessanti colpi della grancassa pubblicitaria che mira al grande pubblico. Cosa mi ha convinto? La sola presenza di Patrice Luchini per cui nutro una specie di devozione e che incontro sul grande schermo come s’incontra un amico. E ancora una volta avevo ragione di riporre nella sua indiscutibile qualità d’interprete tutta la mia ammirazione e quindi incondizionata fiducia.
Qui la strategia è addirittura perversa: far credere che in una microscopica biblioteca, unica nel suo genere, perché qui vengono raccolti i dattiloscritti di tutti i libri rifiutati dalle case editrici, sia stato scovato un piccolo capolavoro inedito e per di più scritto da un improbabilissimo autore assolutamente digiuno del mestiere di romanziere. Infatti, l’altro colpo di scena, è che il fantomatico Henri Pick si è occupato tutta la vita di servire la pizza nel suo ristorante bretone, situato in un minuscolo village del Finisterre. Una bomba per i media e, soprattutto, per i parigini assolutamente affascinati dalla stravaganza del caso. Ma Luchini, nei panni di Jean-Michel Rouche, non ci sta. Il suo fiuto di critico letterario prestato alla televisione (sul modello del lionese Bernard Pivot, conduttore delle famose trasmissioni Apostrophe e Bouillon de culture, dove tra gli altri aneddoti s’infuriò accusando Bukowsky di essersi presentato completamente ubriaco), capisce che c’è una macchinazione editoriale. Non sa trattenersi e denuncia in diretta tutte le sue (fondatissime) perplessità andando contro le regole di una macchina mediatica allestita per creare personaggi che a propria volta creano audience e profitti.
Essersi messo di traverso lo espone al licenzialemto che puntualmente arriva. Quindi fuori dalla televisione, ma anche di casa per via di una moglie che coglie l’occasione per buttarlo fuori. Coinvolto in questo improvviso naufragio, non gli resta che provare proprio quello che sostenevo all’inizio: che i marketing più disinvolti e meno etici, montano storie accattivanti allo scopo di vendere libri, anche a costo di sacrificare il nome del vero autore che, probabilmente, non ha un appeal proporzionale al talento dimostrato. Forse anche Andrè Gide ha valutato così quello strano omino malaticcio che conosceva da vent’anni e che leggeva stizzito sull’odiato Figaro, battezzandolo "uno snob, un mondano dilettante, quanto di più modesto possa esserci." Sembra addirittura che non abbia neanche aperto il plico con il manoscritto sottoposto alla sua attenzione e da leggere per la Nouvelle Revue Francais di Gallimard.
L’omino era Marcel Proust e il plico conteneva Du côté de chez Swann. Ma non fu solo Gide l’editor che commise il madornale errore di rifiutare la pubblicazione di quel capolavoro assoluto, tanto che Proust nel 1913 affidò il suo libro a Bernard Grasset, il quale consentì la pubblicazione ma a totali spese dell’autore. E qui, ritornando al film, per i più raffinati c’è il brivido di piacere per il rimando ipertestuale: riguarda Daphne Despero, la giovane rampantissima editor che fa pubblicare il libro ritrovato in Bretagna nell’inutile cimitero dei dattiloscritti rifiutati. Lei, nel romanzo di Foenkinos e quindi nel film di Bezançon, lavora proprio per le storiche Editions Grasset!
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