Il Tango, negritudine trasfigurata in relazione





La negritudine e Tango, un amore nascosto tra le note (Abrazos Books, 2015), è un breve saggio in cui l'autrice Monica Fumagalli raccoglie una minuziosa e preziosa ricerca, partendo da un primo approdo dove sono circostanziate puntualmente le vicende che hanno tormentato le popolazioni di colore importate dalla schiavitù sulle due rive del Rio de la Plata. Questo necessario preambolo è il punto essenziale per riflettere sul fondamentale contributo delle radici africane alla cultura del Tango che, del resto, potrebbe essere una parola derivata da una lingua originaria del continente nero. Ma c'è di più: l'autrice denuncia come questa tesi inconfutabile,  sia stata minimizzata fino ad essere considerata irrilevante se non addirittura negata.

Hygino Cazon, uno dei payadores, progenitori dei cantores de Tango

Il fascino del tema e la brillantezza del suo svolgimento, accompagnato da una ricca iconografia e da preziose note impaginate a margine, con una deliziosa formula grafica (frutto della collaborazione consolidata con Emanuela Bussolati, direttrice della collana "Un paso mas"), mi ha spinto a scrivere un sintetico corollario sul tema inerente a "quell'amore nascosto nelle note" citato nel titolo. Il libro della Fumagalli focalizza questo argomento da un punto di vista storico e poetico, senza addentrarsi in analisi musicali che, immagino, non figurino negli obbiettivi di un libro indirizzato ad avere la massima fruibilità tra gli appassionati del Tango. 


Afroargentini immortalati dalla celebre fotografa Sara Facio

Ma è proprio aiutandosi con la musica, attraverso l'ascolto e l'osservazione delle partiture, che è possibile toccare con mano come la negritudine non possa essere nè "negata", come sostiene la Fumagalli sia accaduto dal punto di vista storico, nè catalogata come una lontana origine smarrita nel torrente dell'immigrazione che ha fatto e scritto la storia del Tango. Se in questa cultura ha palesemente agito la transizione "du noir au blanc", dimostrata dalle tesi ideate dallo studioso francese Michel Plisson (Tango. Du noir au Blanc, Edizioni La Citè de la Musique, Parigi), in una parte fondamentale della sua evoluzione musicale, l'imprinting afro si incontra spesso ed oggettivamente.



Partendo proprio dal libro di Monica Fumagalli, il lettore viene a conoscenza di come in Argentina il destino dei neri sia stato particolarmente crudele, mentre nell'altra piccola patria del Tango, l'Uruguay, la loro presenza abbia resistito fino ai giorni nostri, in un clima di tolleranza multirazziale. A causa di questa differenza, sulla costa orientale del Rio de La Plata la presenza della cultura africana è stata così significativa da creare un genere chiamato candombe, così radicato e gelosamente custodito da costituire la più verace forma di musica popolare uruguayana, con una fortissima connotazione ritmica risultante dall'uso dei tamburi.
L'organico ne prevede tre di forma e compiti diversi che possono essere raddoppiati, triplicati etc etc.... Intrecciando tra loro figure ritmiche diverse e codificate, fanno assumere alla musica una natura ossessiva e incantatoria, ideale per incarnare attraverso le pantomime dei ballerini che danzano sciolti, la spiritualità rivolta a rendere omaggio alla divinità Mama Kalunga, alias Iemanjà. 



Afroargentini, Buonos Aires anni '60

Sulla riva argentina del fiume, dove il Tango ha avuto un impatto più esclusivo, l'eco della negritudine è stato conservato in una maniera trasfigurata, che ne ha modificato la sonorità, affidandola innanzitutto alla chitarra e in seguito agli strumenti dell'orchestra tipica. Per quel che riguarda la chitarra, con cui si accompagnavano i payadores ancor prima della nascita del Tango, sono due gli elementi che rimandano ad un approccio ritmico in cui resiste una influenza afro.

Il chitarrista di Ignacio Corsini, Enrique Maciel,
è stato uno dei pochi musicisti di colore nel Tango

Il primo, che sarà ereditato dall'orquesta tipica, ed in seguito addirittura e con maggior forza da Piazzolla, è il tres tres dos su cui ci soffermeremo più avanti. Il secondo è il bordoneo, una figurazione ritmica che riempie il tessuto del tres tres dos con altre note mantenendo gli accenti che trova, tipico della chitarra ma in alcuni casi utilizzato dalle orchestre e protagonista di alcuni finali nelle prime composizioni di Piazzolla (Triunfal, Lo que vendrà, ...). Come annunciato, nella codificazione dell'orquesta tipica di Tango, evoluzione del sexteto tipico, i tamburi non ci sono e se figura in qualche rarissimo caso una batteria, è costretta a suonare con le spazzole mascherando la sonorità roboante dei suoi tamburi. 


Gardel con i suoi due chitarristi di colore, Guillermo Barnbieri e Josè Ricardo

Il suo utilizzo è stato influenzato dalle orchestre di jazz formate da bianchi, tra le quali quella di  Paul Whitman, amato ed ascoltato dalla troupe di musicisti di Tango, tra i quali Osvaldo Fresedo, che andarono negli Stati Uniti negli anni '20 per incidere i dischi della RCA Victor americana, restando anonimi dietro il nome del gruppo chiamato Tipica Victor.




Contemporaneamente agli sperimenti influenzati dal jazz dell'epoca, alla metà degli anni '20, il sestetto di Julio De Caro segnò la storia del Tango inaugurando la linea evoluzionista giunta fino a Piazzolla passando per Troilo, Pugliese, Gobbi.... La sua concezione musicale ha avuto la forza di  dividere per la prima volta il Tango in due diverse forme estetiche, che sarebbero diventate tre con una linea per così dire classicista in cui possiamo annoverare il citato Fresedo, Francisco Canaro, Carlos Di Sarli... 


Saggio sul grande chitarristadi jazz afroargentino Oscar Aleman

La linea fedele ad un Tango tradizionalista che contemplava la rapidità ritmica come elemento evocativo della guardia vieja, sarebbe rimasta nelle mani di Juan D'Arienzo, Rodolfo Biagi e, in una forma più cadenzata, in quelle di Ricardo Tanturi, Angel D'Agostino..... Nessuna di queste tendenze ha messo in risalto gli elementi musicali che possiamo attribuire ad una paternità africana, se non come risorse marginali o circoscritte agli arrangiamenti della milonga.

Enrique Maciel

Solo De Caro introdusse tutta una serie di effetti sonori tra i quali alcune figure percussive. Ad eseguirle erano chiamati strumenti assolutamente estranei al mondo delle percussioni. Così il violino faceva la cosiddetta chicharra, suonando le corde dietro il ponticello con un effetto gracchiante.  In altri momenti faceva il cosiddetto tambor, pizzicando le corde con una mano e fermandone il suono con l'altra, in modo da non suonare delle note con una altezza precisa, ma ottenendo una sorta di mini rullo di tamburo. 


El Entrerriano, del pianista di colore Rosendo Mendizabal, è stato il primo tango ad essere editato (1897), strappando il genere alla trasmissione orale

Il contrabbasso da parte sua si scatenava in colpi sulla parte posteriore della cassa con il palmo della mano; davanti  utilizzava invece le nocche delle dita con colpi singoli o ripetuti; invece, sulle fasce dello strumento toccava ai polpastrelli che venendo strisciati sul legno facevano un particolarissimo suono, quasi un sibilo.

Copertina di Caras y Caretas del 1903 


Poi c'era il cosiddetto effetto canyengue inventato dal contrabbassista di colore Leopoldo Thompson, come molti contrabbassisti dell'epoca approdato al nuovo richiestissimo strumento dalla chitarra, caduta in disgrazia quando si stabilizzò l'uso del pianoforte nell'orchestra di Tango. Leopoldo eseguiva  l'effetto canyengue percuotendo le corde con il lato ligneo dell'archetto, anche qui senza ottenere note definite ma semplicemente suoni percussivi. 


Horacio Salgan, il più importante pianista,direttore, compositore,
arrangiatore di origini afroargentine che il Tango può vantare


Il pianoforte colpiva con il palmo della mano la cordiera o il fondo della cassa o, ancora, utilizzava il palmo della mano per suonare cacofonici cluster sull'ottava più grave della tastiera; il bandoneon utilizzava i suoi tasti che non erano percossi ma sfiorati con le unghie come si può fare con i denti di un pettine, oppure percuoteva la cassa dello strumento secondo una figura ritmica definita.



Il celebre libro di Vicente Rossi pubblicato nel 1926


Ecco che tutti gli strumenti del sestetto di Tango (due bandoneon, due violini, un contrabbasso e un pianoforte) potevano contribuire a trasformare l'organico in un gruppo di percussioni africane, senza alcun tamburo! Ed erano africane perchè le figure disegnate dai loro ritmi si andavano ad incastrare  con la pulsazione di base del "dos por cuatro", eseguito sottolineando i tempi forti. Questa prassi dava luogo ai poliritmi, vale a dire ritmi diversi suonati contemporaneamente e chiamati a rispettare certi appuntamenti nello svolgersi dei compas, dove tutto si allineava in una sola pulsazione. Tutti questi elementi percussivi si ritrovano negli eredi della scuola decareana tra cui il già citato Piazzolla e l'insuperabile Osvaldo Pugliese. 

Uno dei tanti Tangos indicati come Tango Milonga, dove la metrica in 2/4 ospita prevalentemente la pulsazione disegnata dalla figura dell'habanera afrocubana ereditata dalla milonga

Tornando al citato "dos por cuatro" con cui tutt'oggi si indica per ragioni forse sentimentali il ritmo del Tango, questo  in effetti si riferisce alla metrica in 2/4 con cui veniva scritto il Tango nelle partiture per pianoforte pubblicate dalle diverse case editrici. Questa metrica è originaria della milonga tant'è che in molte partiture di tangos della guardia vieja veniva specificato sotto il titolo Tango Milonga. Tutti questi tangos apparivano accompagnati dalla mano sinistra del pianoforte con la cellula ritmica dell'habanera che è stata ereditata dalla milonga. 

In questo capolavoro di Julio De Caro, la metrica del 2/4 è scandita da una pulsazione fatta con quattro ottavi che confermerà ai musicologi l'idea del passaggio dal "dos por cuatro" al "cuatro por ocho"


Con De Caro, questa figura inizia a perdere il predominio per essere sostituita da una pulsazione regolare fatta di quattro ottavi: anche se la metrica restava in 2/4, la nuova scrittura imponeva un ritmo più cadenzato che si appoggiava sui tempi forti (il primo ed il terzo dei quattro ottavi). Quindi se da un lato De Caro aggiunge componenti poliritmiche che rimandano alla cultura musicale afro, dall'altro sottolinea una pulsazione di base di origini senz'altro europee, creando un contrasto di affascinante impatto estetico. 


Disco di Romeo Gavioli, pianista uruguayo di Tango

Parallelamente, negli anni quaranta il Tango ha utilizzato la sonorità e lo spirito del candombe, ma non la "clave ritmica" caratteristica: la sua entrata nel repertorio dei classici eterni del Tango è propiziata da due personaggi straordinari, la cui inventiva aveva già creato una forma di milonga spuria battezzata come "milonga urbana", non tanto per il ritmo che restava identico a quello di una rapida habanera, ma per i contenuti testuali. 





Il musicista Sebastian Piana e il poeta Homero Manzi, nel loro illuminato sodalizio, creeranno anche la "milonga candombe" dove riemergerà il tamburo ma solo, ripeto, come elemento coloristico che aggiunge una suggestione esotica alla sonorità ben definita dell'orquesta tipica. Papà Baltasar e Pena mulata, sono due dei principali temi che appartengono a questa piccola famiglia di composizioni, caratteristiche di una fusione musicale  chiaramente allusiva ad una negritudine pittoresca, anche nel loro soggetto poetico.

Le sovrapposizioni ritmiche nel candombe, con i tre
tamburi (Piano, Chico, Repique) e i legni
La Milonga candombe utilizza la cellula ritmica della milonga (quella che si legge in moltissime battute nella mano sinistra del pianoforte (chiave di basso o di Sol) che si trova nell'esempio: della clave del candombe non c'è traccia.

Lo stesso Sebastian Piana spiega la genesi della sua primitiva ispirazione così: "nel 1940 Radio Belgrano incaricò Homero Manzi di scrivere una glossa di una rumba e nelle sue parole figurava "Tumba y retumba la tumba...tumba y retumba la rumba" continuando sempre in forme onomatopeiche. Questo procedimento letterario attirò la mia attenzione e chiesi a Manzi di scrivermi le parole per una milonga inserendo quei versi con parole sconclusionate ma con un grande effetto ritmico. Così nacque il nuovo genere milonga-candombe di carattere ritmico-carnevalesco. La intitolammo Pena mulata, presentata e registrata per la prima volta dall'orchestra di Carlos Di Sarli. Ebbe una grande ripercussione popolare tanto che ne scrivemmo una serie, tutte realizzate nella medesima casa di Calle Salguero 2800". 






L'attitudine onomatopeica che, come rileva con dovizia di esempi la Fumagalli, compare in  diversi testi di milonga e milonga-candombe, ha suggerito il titolo ad uno dei capolavori composti da Osvaldo Pugliese, La yumba. In questo caso il suo significato originario e oscuro (forse vicino alla parola "lavoro") ha contraddistinto un certo modo di trattare il ritmo, con i tempi forti molto marcati e dotati di "arrastre" che in pratica è un glissato suonato congiuntamente dalla mano sinistra del pianoforte e dal contrabbasso. 




Anche qui, la metrica in 2/4 sarà scandita con quattro ottavi: Pugliese, nel bel mezzo degli anni '40, scrive questo capolavoro con l'antica metrica della milonga 
Nell'arrangiamento pugliesiano della composizione troviamo diversi elementi che riportano ad un climax afro: la cellula melodica del tema principale che è ripetuta ossessivamente in diversi punti dell'arrangiamento ed ha una natura assolutamente ritmica; i pizzicati e la chicharra dei violini che sono usati come percussioni, i colpi del palmo della mano sulla parte posteriore del contrabbasso e l'effetto canyengue; il tres tres dos che compare e scompare; i poliritmi che sovrappongono fasce ritmiche diverse. 


La Broma fu un periodico afroargentino pubblicato fra il 1876 e il 1882


Un vero gioiello che in alcuni momenti ha la cadenza ritmica di un misterioso rito tribale ed in altri sa sciogliersi nella più languida dolcezza. Qui ascoltiamo dialogare in uno scambio vertiginoso l'Africa e l'Europa, l'origine ancestrale del Tango e la sua più sofisticata espressione dell'epoca. Siamo nel 1946 e due anni dopo Pugliese compone un'altro capolavoro che ha caratteristiche analoghe ma che giustifica il suo titolo eloquente, Negracha, con una lunghissima frase poliritmica.





Su una metrica in 2/4 coniugata con quattro ottavi, campeggia il tres tres dos con il disegno della milonga campera su cui i payadores improvvisavano i loro versi. Dal suo utilizzo emerge il contrasto di una marcazione del ritmo in tre tempi asimmetrici (formato appunto da due gruppi di tre ottavi e un gruppo da due ottavi, per questo tres tres dos) con un fondamentale ritmo binario (4/4) su cui è costruita la melodia. Lo incontriamo quando punteggia con rapidissime apparizione moltissimi arrangiamenti a partire dall'epoca decareana. Paradossalmente saranno soprattutto le orchestre evoluzioniste a farne ricorso, quelle che hanno continuamente cercato di fissare un linguaggio rinnovato rispetto a quello tradizionalista. 

Ritratto di Gabino Ezeiza

Così, per assurdo, le orchestre più tradizionaliste, D'Arienzo per fare un nome, risulteranno meno attraversate da elementi che introducono un segnale di negritudine. La sincopa e il tres tres dos sono le cellule nere che circolando imprescindibilmente nel sangue del tango, rappresentano il seme genetico della sua negritudine.
Ma come agiscono questi due elementi ritmici? Se del tres tres dos abbiamo già riferito, per quel che riguarda la sincopa la sua funzione è quella di spostare l'accento da un tempo forte ad un tempo debole, creando un'ulteriore discontinuità nella regolare pulsazione del ritmo. Suonare una sincopa come si deve, è stato approfondito dai principali caposcuola del Tango che l'hanno coniugata in maniera personale, facendola diventare una delle cifre più significative della loro estetica.   


Il bandoneonista Enrique Mora è stato l'unico direttore d'orchestra di colore


Horacio Salgan, immenso pianista e compositore discendente da una famiglia di origini afro, oltre a fare un uso comune di tutti i ricorsi ritmici della scuola decareana, ha creato una pulsazione diversa dalla yumba di pugliese, ma anch'essa conosciuta con un termine onomatopeico: umpa-umpa. Salgan lo introduce con il suo celebre Quinteto Real  facendo coordinare la figura del contrabbasso (sincopa con arrastre sul primo tempo forte suonata con l'arco; primo tempo debole e secondo tempo forte pizzicati; quarto tempo con l'arco legato come in una sincopa con il compas successivo) con il controtempo di accordi suonati dalla chitarra elettrica, stoppando il suono per avere un'esclusivo ruolo percussivo. 


L'umpa -umpa di Salgan

Ricordiamo che qualcosa si è opposto al massiccio utilizzo di questi elementi poliritmici, facendo sì che venissero usati con parsimonia: il ballo. Il Tango in quanto musica che ha generato una danza, ha dovuto concedere ai ballerini una certa semplificazione del ritmo in modo che questo fosse intellegibile e quindi adatto a facilitare le loro improvvisazioni. Questo è stato uno dei temi più delicati superati  da Piazzolla con composizioni che per la loro complessità strutturale e la loro varietà ritmica sono apparse ideali per l'ascolto e ostili per il ballo. Inoltre, nella musica di Astor, gli elementi afro della tradizione arcaica del Tango si sono alleati con un pensiero armonico influenzato dalla meravigliosa musica popolare che i neri d'America hanno chiamato jazz. 



Lui ha alimentato il suo Tango personalissimo e d'avanguardia con elementi antichi e nativi nell'area del Mar del Plata, perchè chi si impegna seriamente a rivoluzionare un qualsiasi linguaggio, deve conoscerne tutti i segreti. E Piazzolla recupera quelli più dimenticati, più originari, per dar luogo ad una musica che anche i più fanatici cultori del Tango non hanno capito e ostacolato per decenni. Brani interi di Piazzolla sono basati sulla cellula ritmica della milonga campera di origine afro: per citare il più famoso, Libertango.


Il ritmo marcato dalla mano sinistra del pianoforte e
dal contrabbasso è un tres tres dos


 Piazzolla è stato anche il primo che con Escualo, ha costruito un brano intero proprio intorno alla figura base che nel candombe è marcata dal tamburo con la sonorità più grave. In questo brano straordinario, un carattere drammatico prende il posto di quello gioioso della milonga-candombe, così come l'abbiamo conosciuta nell'elaborazione di Piana o di Alberto Castillo. Quest'ultimo è stato il cantante più convinto e fortunato nel fare sue molte composizioni ispirate al candombe. Autore di titoli quali Candonga, registrato nel 1958 con l'orchestra di Jorge Dragone, è stato interprete di molte pagine che hanno lo stesso spirito quali Candombeando, Bronca, Baile de los Morenos, Mariana, Charol, El cachivachero, Siga el baile, Cafè, Noches de Carnaval, Estapa del 800... 



La presenza di afrodiscendenti in Argentina, seppure molto marginale rispetto alla popolazione di altre razze, ha meritato un riconoscimento da parte del Senato della Rapubblica di Argentina che ha decretato l'8 novembre come Dia de los Afroargentinos y de la Cultura Afro

Per semplificare Piana e Castillo acquisiscono l'aspetto estetico del candombe cercando di ricalcarne lo spirito, mentre Piazzolla fa suo il cuore pulsante di africanità che il Tango ha sempre coltivato anche involontariamente. Insomma non c'è bisogno della milonga-candombe per affermare che in tutto il Tango scorre sangue africano, mischiato soprattutto con sangue italiano.





Quindi mentre Piana e Castillo scimmiottano la negritudine per renderla palese, Piazzolla la supera nella direzione presa da questo termine a seguito di riflessioni culturali, sociologiche e politiche che nel corso dei decenni ne hanno ridiscusso il significato. Cerco di spiegarmi meglio, abbandonando il campo musicale per tratteggiare la parabola che il significato della parola negritudine ha avuto nel ventesimo secolo. Inizialmente (nel 1935) il suo creatore Aimé Césaire la utilizzava come sinonimo di orgogliosa rivendicazione identitaria del valore culturale espresso dai neri, in antitesi con il colonialismo che la confinava nella marginalità. Nel corso degli anni anche lui insieme ad altri intellettuali ne ha preso le distanze, vedendo in essa una sorta di effetto della colonizzazione mentale, dove agiscono ancora le gabbie schematiche create dai bianchi.





A partire da questa teoria, è necessario sottolineare l'importanza degli approfondimenti che hanno ridisegnato il significato di negritudine nel corso del novecento. Oggi restano di folgorante attualità i concetti espressi a proposito dal filosofo e poeta caraibico Edouard Glissant (già protagonista di un post su questo blog). Glissant è artefice del pensiero secondo cui l'identità moderna non è più assimilabile alle categorie razziali che abbiamo conosciuto con il colonialismo. 






Secondo lui, solo in quella fase era lecito utilizzare il termine negritudine come catalizzatrice di forze spirituali, sociali ed intellettuali, allora smarrite in una specie di complesso d'inferiorità rispetto la razza dominante. Tutto è cambiato laddove si è verificato un miscuglio tra le razze su basi differenti: in quei luoghi l'identità si configura come un rizoma basato sulla pluralità e sulla relazione che ha un effetto "creolizzante".


I tamburi del candombe

Ed è proprio l'accesso facilitato a questo vaso comunicante di scambio che ha favorito la nascita di una cultura polisemica come quella del Tango le cui redini sono state sì tenute dall'immigrazione di razza bianca, ma attraverso la relazione che ha fatto assorbire alcune espressioni della negritudine. Per la danza ad esempio, l'eleganza delle figure che lo sviluppo musicale ha suggerito ai ballerini, non è potuto prescindere dalla plasticità del corte e della quebrada, certamente introdotti per imitazione dei movimenti caratteristici nei balli dei neri. E lo stesso vale  per una particolare attrazione verso movimenti che hanno un costante contatto con il pavimento, metafora della madre terra che è una sorta di divinità nelle comunità di origine africana. 






Così come i musicisti hanno dovuto approfondire un linguaggio in cui sopravvivono elementi afro, ecco che i ballerini di razza caucasica si cimentano nel Tango acquisendo movimenti codificati che si collegano improvvisando. Anche questo apprendimento contiene un fondo di cultura afro. Per questo sia i musicisti che i ballerini di Tango sono creolizzati, in quanto sono chiamati a mettere in relazione, anche inconsapevolmente, la loro cultura con quella afro. Il Tango, quindi, si configura come una cultura di relazione che influisce sull'identità modificandola con la criollizazione. Per questo motivo le pagine scritte da Monica Fumagalli nel suo nuovissimo saggio, sono importantissime in quanto aapprofondendo il tema della negritudine, indicano da dove e cosa viene assimilato nel processo di criollizazione senza il quale il Tango non sarebbe quella meravigliosa fusione di culture che è. 

Afroargentini, Buenos Aires 1908: oggi il Senato della Repubblica di Argentina ha decretato l'8 novembre come giorno  dell'Afroargentino e della Cultura Afro


Commenti

  1. Bellissimo articolo che approfondisce ulteriormente il tema lanciato da Negritudine e tango. Grazie Franco!

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