Il cane melanconico di Godard

Il Picasso del cinema, almeno secondo Truffaut, ancora una volta insiste in questo suo Adieu au langage, nel riflettere sul linguaggio filmico confermandone la scomparsa, un lutto che lui stesso aveva celebrato nel lontano 1960 con A bout du souffle. 



Lo fa impossessandosi criticamente della tecnologia 3D, per superare il suo “malheur historique”  e quindi utilizzandola come un'ulteriore possibilità per compiere l'ennesima rivoluzione estetica del linguaggio. In questa opera, a differenza di altri capolavori godardiani, l'indagine è una sorta di autopsia del linguaggio che è stato il cuore battente di tutta la ricerca del maestro svizzero, o, per citare Jaques Ellou, l'autopsia di una rivoluzione ancora viva. 



Il carattere ermetico a priori di questa estasi teorica, non è un atto di esclusione del pubblico, ma un invito a spingersi nella bizzarria della bellezza che tanto entusiasmava Baudelaire.
Ad accendere immediatamente questo clima sperimentale, ponendolo in un quadro di prospettiva storica e quindi politica, il film inizia il suo tragitto spezzato accogliendo lo spettatore con “La violenza”, una canzone di Alfredo Bandelli che è stata la bandiera di Lotta Continua e che in questa circostanza è accompagnata dalla frase “tutti quelli che mancano d’immaginazione si rifugiano nella realtà”.



Quindi la sfida è lanciata subito con formidabile forza e con una lampante chiarezza simbolica che diventa il raffinato soggetto della trama, sostituendo le tecniche dello sviluppo narrativo nella loro forma tradizionale. 
Basta quindi chiamare in causa la coppia (qui ce ne sono tre) con  i suoi eterni clichè affettivi, aggiungendo un elemento a sorpresa che è la chiave di volta dell’intero copione: un cane che si chiama Roxy, ed è il cane dello stesso Godard.



Godard ruba lo sguardo che Roxy getta sul mondo quotidiano, cercando di convincerci su quanto quell’osservare silenzioso sia ben più significante di chi sa esprimersi con la parola. Mentre gli animali parlanti restano imprigionati in modalità di comunicazione che sono uno schermo rispetto ai loro sentimenti, la sensibilità senza filtri di Roxy palpita, pensando, contemplando e capendo in silenzio il disagio dei protagonisti, restando nella sua posizione già aldilà del linguaggio verbale, non prima del linguaggio verbale come sospetta chi afferma compassionevolmente: “gli manca la parola”. 



I 70 minuti della pellicola possono essere quindi considerati un patch work, informe e bellissimo, dove la trascendenza del visibile è offerta con scene riprese in maniera rudimentale da telecamere amatoriali se non da uno smartphone, alla stregua di un audiovisivo casalingo,  come inneggiando ad una creazione democraticamente accessibile a tutti.
E’ anche questo un modo di salutare per sempre il linguaggio cinematografico così come si è sviluppato tra i professionisti e gli artisti del settore, dando luogo ad una sorta di social-movie dove il regista può essere ognuno di noi, senza necessitare di alcun mezzo economico, semplicemente attingendo alla rete, montando in un collage reperti catturati su You Tube, aggiungendo filmati fatti con un cellulare.



Naturalmente Godard gestisce questo insieme caotico alla Burroughs, dividendo i frammenti in una prima parte intitolata “Natura”,  ed in una seconda, intitolata “Metafora”, concepite come un “essai d'investigation litteraire” (lo dice testualmente una delle tante scritte che si sovrappongono alle immagini).
Ma la costellazione di citazioni oltre ad essere letteraria, è cinematografica, pittorica, filosofica.



Ad esempio: “Chacun doit penser que le rêveur c’est l’autre », « Je cherche la pauvreté dans le langage », «Aujourd’hui tout le monde a peur », oppure,  mentre una voce fuori campo recita “ la tribù dei Chihuahua chiama il mondo “la foresta”, l'immagine inquadra un pube femminile, citando il celebre quadro di Courbet intitolato La naissance du monde. Ma a proposito di pittura e pittori, il regista coglie l’occasione per ricordarci, questa volta con una scritta, il celebre aforisma di Monet, “ne pas peindre ce qu'on voit,puisqu'onne voit rien, mais peindre ca qu'on ne voit pas”. 



E Godard sembra ispirarsi a questa frase emblematica per proporci un 3D reinventato, uscendo dal linguaggio bidimensionale del cinema per entrare in quello di una tridimensionalità tutt’altro che hollywoodiana ma della natura di cui il cane è l'emblema.  
Con questa tecnologia Godard sperimenta una forma di chirurgia ottica che non è stata immaginata prima di questo film. Ad esempio, tra le soluzioni inedite, è offerta la possibilità di due visioni monoculari. Con questo colpo di genio, lo spettatore può in certi frangenti della pellicola, scegliere tra due immagini semplicemente chiudendo uno dei due occhi, facendo quindi un meta-montaggio direttamente, durante la proiezione a cui sta assistendo. E’ un altro modo per affermare il concetto di uguaglianza tra lo spettatore ed il creatore come metafora del “siamo tutti uguali”. Tema che una scena provocatoria del film mette in luce in maniera ancor più evidente: mentre il discorso cade sul concetto di eguaglianza, la camera riprende una toilette dove qualcuno sta seduto sul water per defecare, cioè per compiere un atto comune a tutti gli esseri viventi.

Jessica Erickson, Richard Chevallier, Heloise Godet, Zoe Bruneau , Kamel Abdelli
Il film è stato presentato a Cannes dove una inattesa folla ha aspettato invano l'arrivo del regista ottantaquattrenne che in passato non ha mai ricevuto alcun riconoscimento in questo Festival: questa volta il premio è arrivato e lui è restato sul lago Lemano con Roxy. 














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