IL RISTORANTE DI CHAKASEKI AKIYOSHI: EMOZIONI A PARIGI


 Yuichiro Akiyoshi e sua moglie Misuzu

Tutti i curiosi frequentatori della cucina giapponese in Europa hanno visitato quei bistrot che in estremo oriente chiamano izakaya, dove gustare piatti semplici e popolari (ramen, soba, ecc.). Oppure i ristoranti dove è proposto il sushi, ma rarissimamente, per non dire mai fino ad ora hanno potuto assaggiare le sublimi prelibatezze del cha-kaiseki, termine designa il cha-no-yu, vale a dire il pasto dettagliatamente codificato che precede la cerimonia del tè, preparando lo stomaco con un grado di raffinatezza inimmaginabile a ricevere... una ciotola ci tè matcha, storicamente denominato koïcha o tè denso che in questa circostanza è particolarmente scuro e opaco  ma soprattutto troppo amaro per uno stomaco vuoto. Ora a Parigi si può partecipare ad un'esperienza così singolare, risalente ai tempi del Buddism Zene proposto nella forma attuale prescritta dal famoso monaco buddista e maestro del tè Sen-no-Rikyu, durante l'era Azuchi-Momoyama (1573-1603). 





Per farlo bisogna recarsi al numero 59 di Rue Letellier al minuscolo ristorante da 16 coperti, aperto da Yuichiro Akiyoshi. Questo chef è arrivato in Francia dopo essersi formato per dieci anni a Kyoto, presso il leggendario ristorante Hyotei, mecca del cha-kaiseki, fondato 400 anni fa e oggi insignito delle Tre Stelle Michelin.  La sua forma attuale gli sarebbe stata instillata dal famoso monaco buddista e maestro del tè Sen-no-Rikyu, durante l'era Azuchi-Momoyama (1573-1603), quando ancora quest'arte non era ancora stata formalizzata dalla formula definitiva risalente verso la fine del periodo Edo (1603-1867). La declinazione delle portate ha un rituale imprescindibile che aspira a trasportare dalle tenebre alla luce, ed inizia immancabilmente con una tazza di acqua calda, nella quale è in infuso un bocciolo di shiso oppure, un chicco di riso soffiato. 





La funzione di questo primissimo passo del cha-kaiseki ha il compito di risvegliare i cinque sensi e aprire il palato. Poi arriva un vassoio su cui sono appoggiate due ciotole laccate coperte, a sinistra la ciotola con il sacro riso bianco che si chiama niebana, appena cotto al vapore, senza condimeni nè guarnizioni e che deve essere mangiato fino all'ultimo chicco; a destra, quella con una zuppa di miso, il cui colore varia a seconda della stagione: in estate è rosso e piuttosto salato , d’inverno è bianco, morbidissimo, senza aggiunta di alcun condimento. 



A questo punto tocca al mukô-zuké , cioè al piatto opposto contenente generalmente tranci di pesce crudo, guarniti con un condimento leggero. In un silenzio indisturbato da qualsiasi tipo di musica, i commensali possono parlare sommessamente attendendo il Nimono-Wan che secondo lo chef è il piatto più complesso del menù e rappresenta la stagione in corso: ricordiamo che in Giappone le stagioni sono ben 24, divise in 72 microstagioni! in qesto piatto ogni ingrediente viene semplicemente sbollentato separatamente in un liquido, in modo da conservare il proprio sapore. 



Le verdure provengono da due orticoltori giapponesi: il popolare Asafumi Yamashita, situato nel cuore degli Yvelines, e Anna Shoji, nella Loira. I prodotti ittici provenienti dalla Bretagna o dalla Normandia, secondo Akiyoshi, hanpo una carne meno soda ma un sapore più intenso rispetto i pesci giapponesi.  Seguono tante altre piccole porzioni, tra le quali lo  shii-zakana o “piatto che accompagna il sakè” che consiste in un bôzushi , ossia un sushi su stecco di sgombro norvegese, grasso e carnoso. Lo chef lo scotta nel carbone binchotan, prima di aggiungere una foglia di shiso e avvolgerlo in croccanti alghe nori. Nel frattempo è scelto con cura un sake tra 80 e servito prima del mukô-zuké e dello  shii-zakana: questo ci ricorda che il sake è considerato sia un'offerta che un mezzo per comunicare con le divinità, e che il tè non è l'unica bevanda presente nel cha-kaiseki.





 Maniacalmente attento a controllare e a conoscere tutti i dettgli di un servizio di ristorazione, lo chef è oltre tutto un sommelier diplomato, che in forza al suo gusto raffinato ha selezionato più di 200 etichette di vini, in una carta dove accanto ai vari   Frédéric Cossard o Sébastien Riffaud troviamo anche viticoltori giapponesi! Verso la fine del pasto, prima di proseguire con la cerimonia del tè, viene servito un secondo riso, meshi , questa volta cotto correttamente, delicato e leggermente dolce. 



A questo punto è il momento del gong che suona mentre lo chef si prepara a preparare l'o -usu o “tè diluito”. Cala il silenzio. Un altro rituale, più meditativo, inizia poi davanti al chagama , questo grande bollitore di ferro. Lo chef piega e spiega più volte un tovagliolo con movimenti precisi che ricordano quasi una danza. Ogni gesto e ogni oggetto ha un significato. Faccio un esempio: sembra che quando lo chef guarda il mestolo di bambù che attinge l'acqua dal bollitore, il nostro ospite sta in realtà contemplando la sua anima. Contemporaneamente il dessert del pasticciere Manabu Shiraishi viene preparato minuto per minuto davanti ai commensali, ed è servito mentre si prepara il matcha. 




Si tratta di un omo-gashi, un tipo di wagashi (pasticceria giapponese), ma “crudo” (senza cottura finale), creato con una pasta di tè verde gelificata nell'agar-agar, freschissima. La sensazione conferma che la cucina giapponese, eminentemente sensuale, si basa sulla consistenza, molto più che sul gusto. Su ciò che resta o che se ne va, sul fugace, sul furtivo. L'omo-gashi si scioglie in bocca e, con molta delicatezza, la consistenza iniziale si trasforma, scompare, depositando sulla punta della lingua per qualche secondo qualcosa di morbido e un po' ruvido, quasi impercettibile. 



Lì, in questa travolgente apparizione-scomparsa, si annida la natura effimera del mondo. La magnifica ciotola dipinta ora è riempita di matcha. Bisogna alzarla con entrambe le mani, e godersi il ​​primo sorso. All'improvviso, l'emozione  esplode, inaspettata. La sorpresa della naturale cremosità del tè matcha dà la sensazione di masticare muschio fresco raccolto nella foresta. In silenzio, le lacrime scendono lungo le mie guance. 








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