L’ADRIATICO NEL PRISMA SEMANTICO DI IORIO E STAFANO



Un pianoforte e un bandoneon sul palcoscenico del delizioso teatro La Fenice di Osimo, chiudono comme il faut e fuori sede il Jazz Accordion Festival di Castelfidardo. Li hanno suonati con grazia di pensiero e precisione del gesto Pasquale Stafano e Gianni Iorio, riempiendo di armonici evocativi lo spazio sonoro, aiutati da un’amplificazione che con un puntuale lavoro di definizione ha conservato alla perfezione la natura acustica degli strumenti, seguendo la «paletta» dei colori timbrici che si intrecciavano; le ampie nouances dinamiche nell’andare e venire dalle più soavi trasparenze a consistenze di poderosa sostanza; l’elegante contributo di sonorità elettroniche che di tanto in tanto hanno fatto capolino come fosforescenze tenebrose, usate secondo il dettato del buon gusto con sapiente discrezione.


 Vibrando in risonante concordanza, i due strumenti hanno tessuto danze e arabeschi accarezzando la pagina scritta per ricantarla con i volteggi fuggevoli dell’interpretazione in un continuo cercarsi e sfuggirsi, giocando in punta di fioretto nei loro guizzanti cortocircuiti, nei loro avvitamenti improvvisati che mettono le ali a passaggi vellutati o ruvidi,  evanescenti o densi, sempre irripetibili. La qualità mercuriale del loro dialogo affonda le sue radici in una quasi trentennale relazione artistica che ha forgiato tra di loro una reciproca confidenza, fino a farla diventare simbiotica nell’orchestrare il racconto musicale e quindi il pathos sprigionato nelle loro esplorazioni, che non sono altro se non esplorazioni di se stessi irrorate dal respiro della verità. Proprio per questa disposizione all’interplay propiziato dall’ascolto reciproco e quindi dallo scambio continuo di sollecitazioni creative, le loro interpretazioni hanno il pregio di aprirsi incessantemente a una quota di imprevedibilità che le rende sempre un pò diverse e quindi vive. Affrontato con questo spirito, l’approccio con la ripetizione del repertorio collaudassimo, non sembra affatto logorato e quindi non approda a quel punto fermo che, annunciando fatalmente i pericoli della routine, snerva la performance compromettendone la tensione e la freschezza. Le composizioni originali presentate nel concerto osimano sono parse il risultato di una scrittura affine ai principi della sceneggiatura, trattando tutti gli elementi musicali per disegnare uno storytelling che riesce a rendere visibile ciò che si ascolta e che in genere non è possibile vedere. 


Il loro susseguirsi ha alternato tableaux in cui il mantice del bandoneon è sembrato essere attraversato dall’aria viziata di una metropoli, o felice di respirare gli afrori pungenti di una ambientazione che, per usare un’antica parola usata dai compositori, possiamo definire «pastorale». Iorio, oltre che entusiasmare per la preziosa sottigliezza di una destrezza manuale esibita nei vivacissimi motivi decorativi, dà l’impressione di abbandonarsi voluttuosamente allo strumento come se questo approccio fosse il viatico per lo scavo nel suo universo morale. Il pianoforte dal canto suo non ha una funzione meno importane salendo in primo piano frequentemente con preziosismi che possono essere cesellati solo con la calibratissima perizia tecnica necessaria a  padrodreggiare la tastiera, combinando con autorevolezza agilità e tocco. Nei momenti più esposti perché presentati in solitudine, è come se dalla maniera in cui sono coordinati i passaggi scaturisca metaforicamente il sentore profumato dell’acqua mirabilis di Colonia, rimandando ai trattamenti che intere generazioni hanno amato ascoltandoli nel celebre concerto di Keith Jarrett a Köln. Ma a monte di queste sensazioni, è stato ammirabile il coraggio con cui i due musicisti hanno ingaggiato una sfida estetica nell’assimilare e restituire in controluce il linguaggio del tango, genere che fino a un paio di decenni or sono poteva considerarsi come l’habitat esclusivo e naturale del bandoneon e che proprio in quell’alveo trascinava i suoi incontri con il pianoforte. Così se Piazzola e Saluzzi forniscono modelli che si alternano e sovrappongono in filigrana, la dimestichezza con queste fonti primarie non è diretta alla riproposizione in una forma automatica ed epigonale. Iorio e Stafano interiorizzano questi punti di riferimento per trasfigurarne i contenuti, consapevoli che solo in questo modo è possibile creare lo spazio per uno stile originale.  


Si tratta di un puntuale lavoro di identificazione estetica che ha fatto da comune denominatore  a  tutte le composizioni presentate e che, a dire di Iorio e Stafano, trovano l’ispirazione sentimentale nel milieu adriatico e meridionale, corrispondente ai panorami mediterranei della loro nascita e al genius loci della loro formazione…gli stessi luoghi in cui è radicato parte del sangue parentale di Astor Piazzolla, qui chiamato in causa direttamente nel programma con una commovente rilettura di Adios Nonino. Invitando il pubblico alla scoperta conoscitiva del loro teatro fantastico, poroso e ondeggiante, i due musicisti hanno il merito di aver sigillato la loro esperienza umana con la condivisione di un pensiero musicale saldato intorno a un lucidissimo prisma semantico. Lo fanno disegnando con pedante esattezza la propria poetica; curando la vena melodica affinché la sua spontaneità non venga invischiarla in manierismi di genere; articolando gli accenti più opportuni per sottolineare il dinamismo del fraseggio; sviluppando le varie sezioni di ogni brano secondo una drammaturgia che scorre fluidamente senza nessun inciampo o appesantimento intellettualistico. 

La scaletta ha ripreso diversi titoli pubblicati nel cd Mediterranean tales, secondo album del duo pubblicato per la prestigiosissima etichetta tedesca Enja Records. Si inizia con il tempo ternario di Landscape, uno Stimmungbilder dove le immagini di queste atmosfere interiori sono introdotte da un leggero maquillage elettronico ma subito ricondotte nel panorama acustico di un luminoso mondo di suoni mimetici che, in barba ai regimi prescrittivi e alle dottrine snobistiche dell’accademia, sono associati all’efflorescenza di emozionanti slanci vitali. Dopo questo incipit intenso che ha coinvolto immediatamente il pubblico, è la volta di Secret sun dance articolato in quattro parti giustapposte a partire da un avvio che, dopo un ostinato nel registro degli acuti, prende decisamente i contorni di una milonga, lasciando percepire i suoi riverberi ritmici che infine si inabissano, lasciando  posto ad una vivace improvvisazione del pianoforte; il terzo episodio, che parte su un pedale con un loop elettronico, ha come protagonista il bandoneon impegnato in un assolo dai colori piazzolliani con l’accompagnamento che riprende il ritmo di milonga, fino a giungere alla quarta fase dove è ricapitolato il primo tema. Dopo il monumentale e già citato Adios Nonino, si arriva ad una pagina assai articolata come Chacarera gringa il cui breve motivo costituisce la festosa spina dorsale dell’intera composizione in 6/8, salvo cambiare il climax diverse volte e, in uno di questi quadretti giustapposti, approdare ad un vigoroso 5/4 dove il bandoneon sprigiona un assolo esuberante e fastoso. Ancora ternario è The Dreamer, un brano che mantiene lo spirito sognante che il titolo promette, un sogno positivo che culla l’immaginazione di chi ne segue con l’ascolto la narrazione delicata, ma sempre nutrita dalla tensione che non la fa precipitare in banali sentimentalismi. L’apoteosi conclusiva è un’alchimia affidata alla pagina en plein air intitolata Sagra d’estate, brano firmato da Iorio e contenuto nel primo disco del duo prodotto da Enja., in cui  gli strumentisti sono riportati a far danzare le note su un ritmo di milonga campera dalla declinazione saluzziana. 


Il sipario immaginario su un concerto così persuasivo non poteva calarsi se non con due bis acclamati e gioiosamente offerti al pubblico: il primo un tempo moderato dalla melodia deliziosa il primo, il secondo è tutt’ora un successo popolare che seppur abbia più di cinquant’anni è ancora capace di arrivare con giubilo all’orecchio degli ascoltatori più vari e distratti di tutto il mondo, compresa l’arbasiniana “casalinga di Voghera”. Astor Piazzolla lo ha scritto intitolandolo Libertango. Un scelta breve e perfetta per accompagnare tutto il pubblico fuori dall’incantesimo del teatro; da quell’oasi di piacere immune dall’assedio del tempo; da quel respiro metafisico che, parafrasando Proust, può essere vissuto solo attraverso i sortilegi di cui è capace certa musica.


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