LUIS-FERDINAND IN DISCOTECA
Léonie Marie Julie Bathiat nacque da una famiglia operaia nello stesso villaggio che ha dato i natali a Luis-Ferdinand Céline e con lui strinse una lunga amicizia quando era ormai un'attrice famosa conosciuta e amata con il nome d'arte di Arletty che tutti ricordano protagonista di uno dei film più commoventi capolavori dell'intera cinematografia francese: Les enfants du paradis che Marcel Carnè ha diretto nel 1945. Ad Arletty che era stata folgorata dal Voyage cèliniano, era stata imputata un'accusa di collaborazionismo per via di una sua relazione con un ufficiale tedesco e di fronte il j'accuse degli intellettuali antifascisti francesi rispose per le rime dicendo: “Il mio cuore appartiene alla Francia, ma il mio culo è internazionale!”.
Prima ancora del 1941, quando ebbe modo di conoscere personalmente Luis-Ferdinand, Arletty lesse la recensione di Lèon Daudet che gli fece scoprire il Voyage au bout de la nuits fresco di prima edizione e amato da Leon Trotzkij (!) che sosteneva: "la forza di Céline sta nel fatto che, con estrema tensione, rifiuta tutti i canoni, trasgredisce tutte le convenzioni e, non contento di mettere a nudo la vita, le strappa la pelle...". Questo libro è stato secondo lei il "solo colpo di fulmine letterario" della sua vita. In uno dei loro frequenti incontri amichevoli nella sua casa di Meudon, Céline propone ad Arletty di registrare il disco che presto sarebbe stato realizzato coinvolgendo anche la voce di Michel Simon, grazie all'interessamento dell'amico giornalista Paul Chamberillon. L'album esce nel 1957 con estratti di Voyage au bout de la nuit e Mort à credit letti da Arletty e da Michel Simon... e una canzone Au node coulant eseguita dallo stesso Céline!Michel Simon, Céline e Arletty durante la registrazione del disco |
Retrocopertina |
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Ecco allora, per dirla tutta, guardo i romanzi dei miei contemporanei, e mi dico: «C’ è sì del lavoro, ma del lavoro inutile». Ecco quel che penso. Perché non sono né al passo, né al tono dell’ epoca. Il tono dell’ epoca, eh, beh, mio Dio… Bisogna tener conto che il romanzo, poiché di romanzo si tratta, poiché è su questo mi si chiede di dare la mia opinione, il romanzo non ha più la missione che aveva; non è più un organo di informazione.
Ai tempi di Balzac, leggendo Balzac si scopriva la vita di un medico di campagna; all’ epoca di Flaubert, la vita dell’ adultera in Bovary ecc. ecc. Ora siamo informati su tutti questi temi, enormemente informati: e dalla stampa, e dai tribunali, e dalla televisione, e dalle inchieste medico-sociali. Oh! ce n’ è di storie, ce n’ è, ce n’ è, con dei documenti, delle fotografie… Non c’ è più bisogno di tutto questo. Credo che il ruolo di (…) (…) documentazione, e anche psicologico, del romanzo sia giunto al termine, ecco la mia impressione.
Allora, che gli resta? Ebbene, non gli rimane granché, rimane lo stile, e poi le circostanze in cui il brav’ uomo si trova. Proust a quanto pare si trovava nel bel mondo, eh, beh, racconta il bel mondo, nevvero, quel che ne vede, e poi infine i piccoli drammi della pederastia. Bene. Molto bene.
Insomma, si tratta di starsene sulla linea in cui la vita vi ha messo, e di non uscirne, in modo da raccogliere tutto quello che c’ è, e poi di trasporre il tutto in stile.
Dunque, questione di stile. Bene, lo stile io lo trovo, di tutta sta roba qua, simile al tono del diploma delle superiori, al tono del giornale abituale, allo stesso tono delle arringhe, delle dichiarazioni alla Camera, cioè uno stile verboso, eloquente può essere, ma sicuramente non emotivo. Li guardo come gli impressionisti dovevano guardare ai pittori del loro tempo, che d’ altronde gli rendevano la pariglia.
Chiaramente l’ impressionista, quando guardava la chiesa di Auvers di un pittore dell’ epoca, un buon pittore dell’ epoca, non era mica un Van Gogh! E l’ altro diceva: «Ma è un orrore, è un criminale, bisogna ucciderlo!». Ebbene, pensano ancora questo dei miei libri, evidentemente. Dicono, ma insomma questo tipo cos’ è che ha che non va e via dicendo…
Bene, io dico che quel che fanno, sono romanzi inutili, perché quel che conta, è lo stile, e allo stile, nessuno vuole piegarvisi. Richiede un enorme lavoro, e alla gente non piace il lavoro, non vivono per lavorare, vivono per godersi la vita, e questa cosa non permette molto lavoro, e invece richiede un enorme lavoro, molto, nevvero. Gli impressionisti erano dei grandi lavoratori. Senza del lavoro, non puoi fare molto. C’ è l’ eloquenza naturale, beh è davvero nociva, l’ eloquenza naturale, veramente nociva. Bisogna che la cosa tenga sulla pagina. Per tenere su una pagina, serve uno sforzo grandissimo.
Trovo che questa sia una cosa da fare per intero: uno stile. E di stili, non ce ne sono poi molti in un’ epoca, sa. Senza essere presuntuoso, non ce ne sono molti. Ce ne sono tre o quattro per generazione; bisogna dire la verità, perché, se non la dico io, nessuno la dirà. Insomma, sono decadenti loro stessi, dopotutto; non durano che un’ epoca.
C’ è una percezione della vita, una filosofia generale, che la vita è eterna, nevvero, che la vita comincia a sessant’ anni, a quarant’ anni, a cinquant’ anni…
No! No! No! Essa è passeggera! Quindi è il tempo che governa, e non dura mica per sempre. George Sand si beffava di quelle vecchie smorfie da anziani cortigiani. Ma se vedessimo lei stessa ora, la troveremmo del tutto ridicola. C’ è quindi un tempo, un tempo preciso. Guardate le grandi storie. Cosa resta a teatro?
Non molto. Si ritorna sempre a Shakespeare, per forza. Shakespeare, ha dalla sua il costume, questo lo salva. Si situa quindi fuori dalla sua epoca. Lì ha vinto. Tanto che se noi recitiamo Shakespeare vestiti con abiti moderni, sappiamo che è brutto, che non rende l’ effetto. No, no. C’ è tutta una serie di circostanze che vi concorrono.
Allora, dicono: i romanzi di Céline, che strazio, che noia, eccetera: perché non sono nello stile del diploma delle superiori, nello stile ammesso, lo stile del giornale abituale, lo stile della laurea in lettere. Stili che s’ impongono veramente, formalmente, e che tengono, che terranno, ora le dirò perché, poco a poco.
Torniamo allora allo stile. Questo stile, è un certo modo di forzare le frasi, a farle uscire leggermente dal loro significato abituale, e poi di scardinarle, per così dire, di spostarle, e forzare così il lettore stesso a spostare il suo senso…
Ma con leggerezza! Oh! Con molta leggerezza! Perché tutto questo, se lo fate pesante, nevvero, è uno sbaglio, è lo sbaglio… Questo richiede quindi enormemente del distacco, della sensibilità; difficilissimo da farsi, perché bisogna girarci attorno… Attorno a cosa? Attorno all’ emozione.
Allora, voglio tornare al mio grande attacco contro il Verbo. Sapete, nelle Sacre Scritture, c’ è scritto: «In principio era il Verbo». No! In principio era l’ emozione… Il Verbo è arrivato dopo, per rimpiazzare l’ emozione, come il trotto rimpiazza il galoppo, mentre la legge naturale del cavallo è il galoppo, non il trotto; gli si fa fare il trotto. Hanno fatto uscire l’ uomo dalla poesia emotiva per metterlo nella dialettica, cioè nella chiacchiera, no? O le idee. Le idee, niente di più volgare. Le enciclopedie sono piene di idee, ce n’ è quaranta volumi, enormi, riempiti di idee. Molto buone, d’ altronde. Eccellenti. Che hanno fatto il loro tempo. Ma non è questa la questione.
Non è il mio campo, le idee, i messaggi. Non sono un uomo da messaggi. Non sono un uomo da idee. Sono un uomo di stile. Lo stile, tutti ci si bloccano davanti, nessuno ci si impegna, in st’ affare. Perché è un duro lavoro. Consiste nel prendere delle frasi, vi dicevo, e a scardinarle. O un’ altra immagine: se si prende un bastone e si vuole farlo apparire dritto nell’ acqua, lo si deve prima spezzare, perché la rifrazione fa sì che se metto il bastone nell’ acqua, sembrerà rotto. Bisogna spezzarlo prima di immergerlo in acqua. È un lavoro, è un vero lavoro. È il lavoro durissimo di chi scrive con stile.
Spesso la gente viene da me e mi dice: «Pare che scriviate facilmente». Ma no!
Io non scrivo facilmente! Solo con molta fatica! E scrivere mi abbatte, per di più.
E questo deve essere fatto molto finemente, molto delicatamente. Servono 80.000 pagine per arrivare a farne 800 di manoscritto, dove il lavoro è cancellato.
Normale, che il lavoro sia sparito. Lo si vede mica. Il lettore, non è che deve vederlo, il lavoro. È un passeggero, lui. Ha pagato il suo posto, ha comprato il libro.
Luis-Ferdinand Céline
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