Cannes mon amour



A conclusione della settantesima edizione del Festival di Cannes, il Centro Audiovideo della Biblioteca Centrale ha allestito una vetrina in cui figurano 72 titoli che nel corso della storia di questa gloriosa manifestazione hanno conquistato premi significativi. Tra tutti l’eclatante Palma d’Oro e la più intransigente e polemica Quinzaine des Realisateurs, che continua con coerenza ad ispirarsi ai valori emersi nel clima incendiario del 1969. 




L’esposizione è completata da una galleria fotografica che testimonia come le stars del cinema ospiti sulla Croisette, siano state e siano tuttora, protagoniste di una elegantissima mondanità che coinvolge in un clima di leggerezza, hotel da sogno e strade trafficate, cene da mille e una notte e semplici bistrot della tradizione popolare, barche da capogiro e spiagge libere a tutti, tappeti rossi su cui si susseguono le sfilate ufficiali e strutture dove i divi si mescolano ai loro fans, attirando raffiche di scatti fotografici.



Festival cinematografici come quelli di Cannes, Berlino, Venezia, Toronto, Salt Lake City (Soundance Festival), sono appuntamenti cruciali che scandiscono l’agenda cinematografica, attirando un enorme interesse di addetti ai lavori, stampa, pubblico. La loro importanza non si ferma al clamore mediatico sollevato a livello mondiale ma riguarda soprattutto il merito di avere spesso premiato opere di valore assoluto. 



Questo ha contribuito a valorizzare, in diverse circostanze, pellicole di cinematografie reputate marginali, almeno secondo i criteri del mercato della distribuzione internazionale. Certo, le opinioni intorno alla validità di questi concorsi non esprimono una valutazione unanime. Ad esempio secondo Woody Allen e Steven Spielberg, un concorso cinematografico ha un senso solo se i film in gara affrontano uno stesso soggetto.




Peggio ancora la pensa chi sostiene che nell’ultimo ventennio la scelta dei film selezionati per la gare, sono il risultato di una particolare attenzione verso produzioni accuratamente studiate a tavolino per tenere conto degli elementi strettamente legati al mercato cinematografico, dei soggetti più congeniali all’epoca, delle opinioni dei critici e dell’impatto verso un pubblico internazionale che si auspica sempre più vasto. 


In effetti i presupposti sostenuti da quest’ultima considerazione, hanno finito per ridimensionare il valore espressivo di gran parte delle opere in concorso, orientate verso il rigore di un cinema povero e trascendentale ma anche afflitte dalla tendenza contaminativa che emerge nel cinema europeo di cooproduzione, interessato a sedurre i canoni estetici in cui si riconosce il pubblico nordamericano. 




Purtroppo sembra che anche il Festival di Cannes, la più snob e storicamente orientata ad un approccio intellettuale al cinema, abbia ceduto a questi segni dell’epoca. Così anche l’edizione appena conclusa ha sollevato diversi malumori critici. 


 A vincerla è stato Ruben Ostlund, un regista svedese che ha raccontato satiricamente la grettezza nascosta dietro chi appartiene al mondo culturale, dirigendo musei o collezionando opere d’arte contemporanea. Un altro regista svedese come Ingmar Bergman, tra i pochissimi che ha tutti i titoli per figurare in un ideale Parnaso della settima musa, ha sostenuto che “non c'è nessuna forma d'arte come il cinema per colpire la coscienza “. 


Artefice di un cinema tutt’oggi all’avanguardia nel tratteggiare il disorientamento dell’uomo contemporaneo con un linguaggio simbolico, esistenzialista, psicologico e persino mistico, c’è da chiedersi come avrebbe giudicato il suo giovane connazionale? 






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