Il mondo che nasce con Adriano Olivetti





Giuseppe Lupo intitola un suo saggio "La letteratura al tempo di Adriano Olivetti", ma leggendo questo libro è possibile ripercorrere l'intero periodo storico che una eclatante etichetta ha battezzato "gli anni del boom", e che concretamente è stato il decennio di una radicale rivoluzione industriale con le sue luci e le sue ombre: tutte denunciate proprio dagli scrittori più acuti dell'epoca.
Per giungere in questi anni, tra il '50 e il '60, è necessario ricordare che l'impegno di Adriano Olivetti ha inizio nell'Italia tormentata del 1946, quando Ignazio Silone firma l'editoriale della nuovissima pubblicazione "Comunità", intitolando "Il mondo che nasce". 



Forse Olivetti che dirige la pubblicazione e Silone, non sono perfettamente coscienti di come questo periodico diventerà la voce autorevole dei valori morali e civili del paese, per dare luogo al profondo dialogo tra il cattolicesimo ed il marxismo. Dietro questa sintesi si declinava la "terza via" teorizzata da Adriano Olivetti nel modello della sua fabbrica-comunità. Questo industriale atipico, sintetizzava in questo progetto di cambiamento radicale, l'inquietudine di chi eleggeva modelli quali Jacques Maritain, Simone Weil, Emmanuel Mounier. 




Nelle riunioni degli intellettuali milanesi che si incontravano ai vernissage della Galleria Milione, oppure al mitico caffè Craja che progettò nel 1930 Luciano Baldessari, si discuteva animatamente, come ricorda Alfonso Gatto: "il Caffe Craja era una piccola stazione planetaria da cui partire per un'Europa illuminata, lontana da noi come un astro...."



In questi luoghi dove circolavano idee, erano sottolineati i caratteri di quella cultura politecnica che riafferma il primato della progettualità, centrale nel pensiero olivettiano, e la sua utopia di organizzare economicamente e politicamente un modello di città idealmente armonica, dove venisse ripensato il destino umano. Olivetti aveva incominciato questo cammino con dei fatti estremamente concreti nell'organizzare la vita della sua azienda: Paolo Volponi era stato chiamato come direttore dei servizi sociali; Ottiero Ottieri come direttore del personale. 

Pubblicità di Giovanni Pintori per la celebre Lettera 22, 1960


L'economia, la sociologia, la pubblicità e il design, vantavano un cast di intellettuali straordinario che era stato assunto con lo scopo di coniugare la moderinità con i suoi mezzi di produzione massiva, e la persona umana, quindi la cultura tecnico scientifica con quella umanistica. Ecco alcuni nomi presi da quella lista di personalità: Giudici, Sinisgalli, Pampaloni, Soavi, Bigiaretti. Da quella esperienza, in cui gli scrittori entrarono quotidianamente nel mondo chiuso della fabbrica timbrando il cartellino come tutti gli altri lavoratori, fiorì la grande letteratura industriale italiana, collegata alle Edizioni di Comunità: ho volutamente tralasciato dalla lista precedente Franco Fortini che nel 1952 si occupò della traduzione italiana di un libro fondamentale quale La condizione operaia di Simone Weil! 



Aldilà di tutto è necessario evidenziare il fatto che tutti questi autori non erano legati tra di loro che per l'esperienza che stavano vivendo: cioè, non hanno sottoscritto nessun manifesto comune come è accaduto ad altri gruppi di scrittori e poeti che si sono riconosciuti in una precisa linea poetica. Il saggio di uno studioso come Lupo, specialista nel cogliere i nessi tra industria e letteratura, si costituisce di quattro sezioni, con una serie di numeri che in parte erano stati già pubblicati isolatamente e in parte sono inediti. Il suo valore di raccolta fa immaginare che questo volume possa servire come punto di partenza per uno studio organico del fenomeno legato alla cultura letteraria e a quella d'impresa. 




Olivetti moriva nel febbraio del 1960 ed ancora gli spunti che possono essere colti nella genialità delle sue idee rendono la materia assolutamente contemporanea, quindi utilissima in questo momento dove la cultura d'impresa sembra incapace di proporre e articolare una politica industriale che non sia quella della flessibilità, del precariato, dell'esternalizzazione fino alla delocalizzazione. Forse la rivista Comunità, almeno per quel che riguarda la sua terza serie, dovrebbe essere insegnata laddove si formano quadri e manager, vale a dire i soggetti che hanno trascinato il lavoro sotto il torchio della finanza e dei mercati, spogliandolo della sua dignità, della sua cultura, della sua vitale importanza sul piano sociale.


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