Charlie Haden et un après-midi manouche
Il jazz manouche è una nicchia espressiva affollata da fedelissimi interpreti votati a mantenere vivo un linguaggio che ha scritto il suo vocabolario tra gli anni trenta e gli anni quaranta del novecento, riservando uno spazio marginale a chi volesse aggiungere novità. Chi lo ha fatto, è sempre stato a cavallo tra il rigore dello stile manouche e il jazz di matrice afroamericana. Tra questi, Philippe Chaterine, Bireli Lagrene, Christian Escoudè. Una delle prove più convincenti di questo campo ibrido è una registrazione del chitarrista Christian Escoudè, un’incisione nata dal fortunato quanto episodico incontro con il
bassista Charlie Haden. L’impresa, che risale
al settembre 1978, è una sorta di diario minimo del colpo di fulmine che ha
infatuato i due musicisti alle prese con la musica di Django Reinhardt.
Prima edizione in vinile |
L’interpretazione, è il resoconto di un’appassionata ricerca che non si situa
sul piano aneddotico della rilettura né tantomeno su quello oleografico
dell’imitazione ma, insegue l’origine di un significato ormai custodito nel
tempo perduto, per celebrarlo in una veste inedita. L’organico austero e spartano dei loro soli
strumenti, perfettamente acustici, è stato catturato con altrettanta semplicità da due soli
microfoni, nell’intenzione di relegare la stessa tecnologia in una cornice
altra da quella sofisticata dei giorni nostri. In questo arredo dominato dal meccanismo della reminiscenza, tutto
sembra perfettamente disposto per ispirare il moto edulcorato del trasporto
sentimentale. La memoria funge da luogo ideale per una riflessione lirica liberata dagli stereotipi di maniera. Il
motivo lirico, mai come in questo caso, appare spogliato dai detriti retorici
che spesso ne compromettono gli esiti artistici: esso risplende in un dialogo
emozionale dalla purezza di giglio.
retro di copertina |
Il palpito che si genera tra Haden ed
Escoudè, segue la falsariga indicata dalla struttura dei
brani, ne modella le forme, ambientando la musica tra un repertorio di adeguati
riferimenti. E come capita a tutti gli autentici moti di trasformazione
culturale, il risultato è un’altra cosa dai suoi ingredienti iniziali,
emergenti d’altronde sotto forma di frammento e di collante. Escoudè, manouche egli pure come Django, trova
in questo contesto un valido motivo per insistere sull’elaborazione del
linguaggio ereditato dalla scuola chitarristica francese. Il suo inserimento in questa florida
tradizione lo contraddistingue in quanto a personalità. Egli si avvicina all’evocazione reinhardtiana
con devozione ma scongiurando il pericolo della perdita di identità, con una
prestazione maiuscola sotto il profilo creativo. Alla sfida partecipa anche la scelta di abbandonare il suono imposto dalla tradizione manouche attraverso le vibranti chitarre del liutaio Maccaferri e simili, dal timbro leggermente metallico che svela la loro personalità passionale e fa immaginare la loro complicità con gli strumentisti che fanno del talento melodico il loro punto di forza. Escoudè sceglie una Ovation, chitarra acustica alla moda negli anni di questa registrazione, considerata molto criticamente dai puristi del jazz.
copertina della versione in cd |
Il suo fraseggio è del resto
quasi trascinato dall’inquietante presenza di Haden, ciclope incombente dalla
sonorità unica che trasuda sensibilità.
Ancora una volta Haden ci illustra la filosofia che anima il suo fare
artistico anche se, in questo caso, il terreno non è quello libero e
rivoluzionario da lui prediletto: qui il recinto è il campo assolutamente tonale nel quale
stazionano le strutture dei brani. In
una sorta di ascesi etico-religiosa, alla Sainte Coulombe, Haden cerca
l’essenza in primo luogo dentro di sé sviscerandola attraverso il suo strumento
sotto forma di qualità sonora. Una gamma di grana densa, terrosa, sontuosamente
cavata con plasticità nei registri gravi, come per dar luogo ad un’utopica
indagine del profondo. La trama delle sue linee non va mai oltre una chiarezza armonica, per così dire bachiana. Se si ha la sensazione di restare avvolti in un'atmosfera arcaica, questa è il medium con cui si manifesta in trasparenza la biologia naturale del suono dei due strumenti acustici. Così, in ogni composizione registrata, la chitarra e il contrabbasso intrecciano i propri disegni in arazzi incantevoli, dai soggetti ora malinconici, ora gioiosi, secondo i due caratteri peculiari della musica manouche. Una delizia che, a distanza di tanti anni, non ha perso quella freschezza d'ispirazione che trasuda con generosità.
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