Lenin, poeta rivoluzionario

Come Marx, Engels, Feuerbach, Mao-tse-tung, Ho Ci Min, Che Guevara, anche Lenin scrisse poesie, sottolineando anche in questa veste la sola forma di coscienza sociale rivoluzionaria: quella dell'Utopia. Come già Marx e Feuerbach, anche Lenin aveva colto un lato della poesia che sottraeva questa sublime modalità espressiva all'idea di un'appartenenza subordinata che si manifestava in una forma visionaria e poco coerente con l'arte della politica rivoluzionaria. Per loro, la poesia aveva una altissima funzione di autocoscienza. Così Lenin scrisse il suo "poema rivoluzionario" per testimoniare con quella forma di pensiero, come si potesse pensare "la rivoluzione" anche trasversalmente al linguaggio, uscendo dalla legge e derogando dal valore di scambio comunicazionale. Era il 1907, forse a Pietroburgo o in Finlandia, dopo il colpo di stato che aveva messo fine alle speranze rivoluzionarie risvegliate dalla prima esplosione del 1905. Scorgiamo nel suo testo la consueta serietà e tensione linguistica, in un contesto espresso con umile semplicità. Secondo la confidenza fatta ad un amico, questo poema doveva  essere una sorta di indicazione tensiva di quello che sarebbe dovuto essere un poema rivoluzionario.



L'ANNO DEGLI URAGANI

Fu anno di uragani. Sulla Russia tutta
si erano messe a correre le nuvole e precipitavano
grandini tonanti sui villaggi. Immani le ferite
che nel petto dei campi spalancavano le folgori.

Lungo nei cieli era il guizzo dei fulmini
arroventava i corpi un pesante inferno
e le tenebre delle notti disertate dagli astri
invase dal riverbero degli incendi tacevano.

Vortice gli elementi, e nel gorgo turbinavano gli uomini
il cuore chiuso nel pugno dell'angoscia
e doloroso il palpito del sangue,
mute le riarse labbra.

Gli innumerabili caddero ma
fruttificarono le corone di spine.
Con torce di futuro i morti hanno attraversato
gli imperi della menzogna e le viltà dei servi.

Una scia fiammeggiante adesso è tracciata sul mondo
dalla scrittura delle morti torturate
e sulla carta della vita duro è il sigillo
che schiaccia l'infame vergogna delle catene.

Poi nel gelo improvviso cominciarono a cadere
le foglie e il vento governò la macabra danza:
la putredine grigia dell'autunno lacrime piovose
spalmò sul fango e vi sprofondò per sempre.

Increduta incredibile agli uomini l'allegrezza
rifiutavano la vita si negavano alla morte:
i denti disperati della collera a morsi
strappavano i cuori vuoti e neri delle case.

Ma dalla palude degli autunni improvvisa
sgorgò la primavera, fiotto di luce chiara,
un dono degli dei alla derelizione degli uomini,
riportando la vita la Primavera Rossa.

E rossa fu l'aurora di un mattino di maggio
che colorò il cielo pesante di stanchezza
e rosso il sole con lunghi raggi brucianti
che perforò il nebbioso sudario della Russia.

Fiamme di fari accesi sulle profondità del mondo
fiamme umane accese sugli altari della natura
per eternità accese da sconosciute mani
fiamme chiamarono i popoli dal sonno a quella luce

e rosse rose emersero dal sangue
fiori inediti crebbero dalle pagine della terra
e corone rosse intrecciarono per i secoli rossi
sopra tombe mai più dimenticabili.

(traduzione di Gianni Toti, la poesia fu pubblicata per la prima volta in Italia su Carte Segrete nel numero che inaugurava gli anni '70, festeggiando il centenario della nascita)

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