IL PIACERE DEL KOMOREBI

 


Nella contemplazione della luce scintillante che accarezza e trafigge il fogliame degli alberi c’è qualcosa di quel vuoto abbandono col quale il mistico finisce per annullarsi nel suo oggetto.  Come Faust nella tragedia di Marlowe voleva che la sua anima si sciogliesse nelle nuvole per sfuggire alla dannazione, così lo spirito dell’uomo, perdendosi voluttuosamente tra i lampi luminosi che emergono dall’ombra, può giungere a una provvisoria beatitudine. Nella tradizione orientale un’illuminazione può scaturire proprio dalla meraviglia procurata nel ludico esercizio dello sguardo prestato ad interminabili fantasticherie che diventando ipnotiche, rilasciano i motivi di veri e propri  incantesimi meditativi. Questo punto di vista è uno dei cardini che ha ispirato i principi secolari della poesia giapponese dove, al contrario che in occidente, i sentimenti nascono dalle immagini cioè dall’osservazione di fenomeni esteriori. Osservazioni divinatorie che permettono di mettersi in comunicazione con l’essenza di un mondo più autentico rispetto a quello incarnato nel perpetuarsi dei giorni. Nella vita di Hirayama scandita dall’ordinata ripetizione della quotidianità, si innestano questi momenti di lieve ebbrezza dove la grazia spontanea del balletto imprevedibile tra la sostanza vibratile della luce e le cavità porose delle ombre, compone visioni poetiche fissate in bianco e nero attraverso l’obiettivo di una modesta macchina fotografica analogica. 



La coltivazione di questa piccola ossessione nutre una selezionata collezione di immagini accuratamente catalogate e conservate meticolosamente in scatole accumulate ordinatamente nel suo minuscolo appartamento dal quale si può vedere il Tokyo Skytree. Quando Wim Wenders decide di ritornare nella capitale dell’Impero Celeste dopo trentotto anni dal suo Tokio Ga, in cui ha palesemente fatto omaggio al regista giapponese Yasujirô Ozu, la realizzazione del film che intitolerà Perfect Days e che avrà come protagonista il personaggio di Hirayama non figurava certamente fra i suoi programmi. La ragione originaria di quel viaggio riguardava l’invito ricevuto dall’amministrazione comunale di Tokio, finalizzato a girare brevi cortometraggi sul progetto TTT (The Tokio Toilet) dal soggetto assolutamente stravagante: le toilettes pubbliche che hanno progettato alcuni celebri architetti giapponesi e che sono disseminate nel gigantesco perimetro della metropoli. Ed è intorno a questi splendidi esercizi di micro architettura dalle estetiche diverse che ruoterà la vita abitudinaria di un uomo alleggeritosi coraggiosamente dal peso e dai successi dei suoi trascorsi professionali (che intuiamo e che il regista ha confermato in un’intervista),  ma anche affrancato da catastrofiche relazioni familiari (in questo caso focalizzate in una scena dolorosa dove una sorella palesemente benestante compatisce le scelte esistenziali di Hiramaya). 




A disciplinare il suo nuovo tempo integralmente analogico è la riscoperta del ritmo congeniale alla sua vera natura, dove la rapidità è bandita e la vita ripristina la cadenza del suo respiro naturale, accettando una semplicità anacronistica rispetto i canoni perversi dettati dal mainstream. In questo quadro c’è posto per un lavoro che quello stesso mainstream classificherebbe come umile, ma che l’uomo affronta con orgoglio smantellando i pregiudizi sociali in nome dell’utilità del suo compito svolto con virtuosismo a beneficio della collettività. Sarà lui, Hiramaya, ad occuparsi della minuziosa pulizia di questi santuari che donano la loro estetica ricercata e il loro comodo confort alle urgenze fisiologiche dei passanti che li usano. 


Tokyo Toilet; nel parco di Nanago Dori, l'architettura di Kazoo Sato e dei progettisti e creativi Disruption Lab Team

I giorni iniziano con la sveglia delicata che raggiunge Hiramaya con il suono frusciante della scopa con cui qualcuno spazza puntualmente il marciapiede sotto casa; quindi, una volta ripiegato il fouton, curata l’igiene personale e dato l’acqua a una collezione di fragili piantine, è la volta di indossare la tuta del progetto TTT realizzata da Kenzo e quindi il momento di un caffè erogato in lattina da un distributore automatico; poi c’è il furgoncino azzurro, perfettamente attrezzato, con cui si immerge nel traffico apocalittico ascoltando i suoi idoli anni’70 in desuete musicassette che farebbero gioire qualunque collezionista di questi cimeli d’epoca…Lou Reed, i Velvet Underground, Patti Smith, The Animals, Van Morrison, Otis Redding fino a Nina Simone; quindi le toilettes dove è raggiunto dall’insofferenza del giovane e maldestro collega di cui è il mentore paziente; il pranzo frugale sulla panchina di un parco, tra gli alberi pronti ad essere fotografati quando la luce che li attraversa ispira lo scatto; infine c’è il ritorno a casa, alcune volte preceduto da una doccia pubblica con piscina di idro massaggio; infine sempre il libro in edizione economica di Faulkner o della Patricia Highsmith, acquistati da una cordiale libraia e puntuale prologo del prendere sonno e tessere una giostra di sogni.





Wenders ha lasciato che questi sogni fossero girati alla moglie Donata in bianco e nero, partendo dall'idea di raffigurare quello che i giapponesi chiamano Komorebi per descrivere il gioco di luce che attraversa le foglie e si riflette sui soffitti, sui muri, sui pavimenti. L'idea è stata realizzata con sequenze di rarefatti prismi luminosi, di alberi mossi da un vento lieve, di personaggi curiosi che  Hiramaya ha incrociato durante la giornata,…in un riverbero di immagini che si sovrappongono trascolorando sfumate, come in certi iridescenti caleidoscopi sperimentati nei film delle prime avanguardie del novecento.


I sogni di Hiramaya, fotogramma di Donata Wenders

Poi c’è la domenica anch’essa programmata secondo il tirocinio di una tranquilla routine che scorre senza attriti: la sveglia, questa volta naturale; la bicicletta da viandante solitario; la rapida visita al tempio; l’escursione in libreria; l’incombenza della lavanderia automatica; la pellicola nuova (!) e le fotografie sviluppate della settimana precedente, scatti di effimeri giochi di luce pronti per essere selezionati e quindi finire nelle scatole ben ordinate o stracciate immediatamente; la solita trattoria…. In queste avventure che potrebbero sembrare minimaliste a chi non ha conoscenza dei meccanismi che regolano lo spirito orientale, Wenders compie una sorta di devitalizzazione della parola concedendo a Hiramaya pochissimi dialoghi per offrire al silenzio, alla dolente delicatezza del suo sguardo, alla coazione a ripetere dei gesti, il ruolo centrale di uno spazio narrativo in cui si consuma il naufragio del rapporto d’incomunicabilità che il protagonista ha con gli altri. Al contrario, questa rivoluzione solitaria con cui l’imperscrutabile Hiramaya difende la forma possibile della sua felicità, comunica allo spettatore una palese testimonianza di emozionante umanità che con la postura, l’esile mimica e la forza significante del silenzio assume la forma di una parola corporea. 


Wim Wenders e Kōji Yakusho al Festival di Cannes (foto di Karen Di Paola)

E Wenders non poteva dirigere un attore più adatto dello straordinario Kôji Yakusho il cui corpo-teatro sa esprimere l’inesprimibile facendo fluttuare in se la fisionomia psicologica del personaggio di Hiramaya, cogliendone l’ineffabile pathos spirituale e calandosi con fiducia nella sua mite normalità. La compostezza poetica della sceneggiatura non cede né al miele del lirismo a buon mercato, né alla via pittoresca dell’esotismo, mantenendo un’essenzialità che punta dritto ad una sorta di sintonia antropologica con le esclusive caratteristiche dello spirito nipponico, evitando programmaticamente tutte le facili ridondanze degli ornamenti decorativi che costituiscono gli effetti artificiosi riconducibili al deposito delle banalità stereotipate. Provando a sintetizzare una conclusione, va sottolineato come l’insieme di questa perla cinematografica sembra confermarci che i film valgono soprattutto per quello che non dicono: valgono eventualmente per quello che fanno comprendere. E il Perfect Days del regista di Düsseldorf, assistito ancora una volta dal fantasma estetico di Ozu, appartiene alla ristretta schiera di queste opere preziose.




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