IL VENTAGLIO DI UNA SIRENA DEI TROPICI



La silhouette di Jany Mc Pherson entra in scena tutta sola, accomodandosi al pianoforte per iniziare il concerto senza i due compagni con cui condividerà il resto del programma. Bastano i pochi istanti di silenzio che precedono le prime note per sentirsi irretiti dalla sua bellezza esotica, dal suo voluminoso cespuglio di capelli ricci e vaporosi, dalla sua carnagione di miele elegantemente inguainata in un’abito con grandi fiori rossi, fogliame verde e sfondo bianco che con i suoi colori vivaci fa pensare a un gusto tropicale d’antan. Accompagnata da questo incantevole fascino esotico, la pianista ha iniziato a suonare immergendosi in una sua composizione delicata dal titolo Pacific Suite. Una melodia che è motore narrativo decisamente cantabile con accenti spigolosi nelle note ribattute, intrecciata alla trama sonora che gioca tra parentesi rarefatte e fasi in cui l’accompagnamento si infittisce di arpeggi addensando l’involucro armonico. Sotto il finale questa massa sonora si sfuma a vantaggio di un lieve sostegno accordale che lascerà germogliare la poesia delle ultime note in uno spazio vuoto. 



Meno contemplativo e certamente sospinto dalla vitalità dei guizzi virtuosistici di cui è capace la pianista, il secondo tema intitolato Mi mundo giustappone una prima parte che sembra proseguire il mood del brano precedente, ad una seconda parte dal ritmo tumultuoso di vorticosa intensità, a propria volta esaurita per riprendere il disegno iniziale e concludere. Al termine di questo incoraggiante prologo solitario il pubblico ha avuto modo di scoprire che Jany padroneggia perfettamente la nostra lingua, collegando in italiano i brani proposti nel concerto con brevi e deliziosi preamboli, somiglianti alle indicazioni di una sceneggiatura garbata, baluginante di sens of humor e trasognata ingenuità. Insomma un esempio emblematico di carisma da show woman di razza, che coniuga il suo entertainment con il vigore solare corrispondente alla sua tripudiante natura estiva, aiutandosi agitando un grande ventaglio alla ricerca di sollievo dal caldo umido. 


E ne aveva ragione perché nella sede del Teatro Cicconi di San Elpidio a Mare, che per ragioni meteorologiche ha consentito di spostare il concerto al coperto, ci si sono messi anche i fari contribuendo a rendere la temperatura sul palcoscenico ancor più aggressiva. Raggiunta dal contrabbassista Luca Bulgarelli e dal batterista Amedeo Ariano, la pianista cubana ha guidato la musica con entusiasmo giovanile, leggerezza calviniana, gentilezza floreale e carattere d’acciaio. Tutto con quella non calanche propria degli artisti che, maturando la consapevolezza degli loro strumenti  tecnici ed interpretativi, dominano il loro progetto musicale vigilando sulla sua unità e sulle eredità consce e inconsce che vi si annidano. Nella circostanza di Jany, una costellazione di dettagli compone il diorama della sua solida identità stilistica, dove l’azione della prassi musicale risponde ad una specie di estetica d’accoglienza, generando un salutare scompiglio tra gli stereotipi geoculturali. Questa è stata la percezione durante le diverse tappe della sua performance che l’ha vista mettere in scena in modo quanto mai preciso la sua esigenza di essere vera. Lo ha fatto muovendosi agevolmente nello spazio, (melting-pot di diverse culture tra i tropici, il Nordamerica e la Francia), e nel tempo (svariando tra il repertorio tradizionale degli standard, quello delle  canzoni francesi novecentesche e del materiale attuale che nutre le sue creazioni). 

E’ in questo quadro che l’artista ha ricombina tracce mnestiche di vita vissuta e moti del cuore, secondo la gerarchia che risponde a un criterio poetico e per questo niente affatto mimetico, dando la sensazione che la fresca iridescenza del suo approccio alla musica abbia un aspetto spirituale riguardante il senso stesso della sua vita. Per questa ragione personale il ventaglio di componenti con cui propone il suo metissage musicale, non si colloca nel dedalo postmoderno così in auge e così incline a mescolare artificiosamente, stili e generi ricorrendo a diverse forme di citazione, ma è legato a filo doppio alla sua autobiografia. Nella trasfigurazione musicale della sua esperienza personale e umana, si concentra un elenco di confluenze a partire dalla lussureggiante generosità del nativo e quindi ineliminabile spirito caraibico, presente alla stregua di una proustiana memoria involontaria. Su questa radice si innerva l’imprinting musicale precoce, prima per via familiare e informale, quindi attraverso l’educazione pianistica di conio accademico che ha ordinato le prerogative del suo talento; l’indispensabile necessità di esprimersi anche attraverso il canto, accompagnandosi al pianoforte e intonando una voce dalla grana calda, tendenzialmente scura e capace di vampate d’estro nello scat; l’eleganza d’oltralpe in cui si è immersa trasferendosi venti anni or sono, scegliendo di vivere in quella Costa Azzurra che surroga il clima nativo con temperature miti, una luce di serenità matissiana e i festosi colori mediterranei. 

Ma il capitolo più significativo che la pianista e compositrice mette insieme in questo mélange, riguarda palesemente una matrice jazzistica che si manifesta anche nello spazio lasciato all’imprevedibilità dell’improvvisazione, sempre contenuta nella misura di pochi chorus soprattutto nelle composizioni originali firmate dalla pianista, come se l’intenzione di fondo sia quella di stabilire un equilibrio particolarmente bilanciato con la parte tematica. A questo proposito va rilevato come la scrittura della Mc Pherson sia schiettamente personale e attuale, con suggestioni che suggeriscono l’impiego di modelli analogici in una luminescente prospettiva sinottica dove le diverse influenze si offrono distinguibili ma sintetizzate da una precisa veduta unitaria. I singoli contenuti di questo poliedrico bagaglio culturale diventano la materia prima sottoposta da Jany Mc Pherson alla tensione trasformativa che la forgia. Ne scaturiscono mosaici con trovate originali in cui ogni tessera ha un suo colore, una sua dinamica, una sua invenzione armonica, una sua sorpresa ritmica, secondo il dettato della proteiforme tensione stilistica in cui si identifica l’autrice. Questa lega originale brilla di tracce retoriche evocative più che descrittive, sollecitando costantemente l’ascoltatore ad abbandonarsi fiducioso alle sue sensazioni nell’esercitare la capacità di immaginare attraverso la musica, luoghi, persone, colori, sapori, profumi. A questo piacere coinvolgente, carnale ed insieme sensibile, condiviso dal pubblico presente al concerto tenuto a Sant’Elpidio nel quadro dello splendido Jazz Festival che da ventiquattro edizioni anima la vita culturale della città, hanno contributo in maniera decisiva e maiuscola Luca Bulgarelli e Amedeo Ariano, letteralmente prodigiosi nel fare proprio un repertorio così complesso con l’esigua prova di un giorno.

I due deuteragonisti hanno cesellato con piglio spavaldo le camaleontiche miscellanee ritmiche, le originali sequenze armoniche e le ingegnose geometrie strutturali che contraddistinguono la semantica musicale di Jany Mc Pherson, facendo sì che gli arrangiamenti ben organizzati fluissero senza attriti. La loro sensibilità e naturalezza ha propiziato l’incantesimo del dialogo empatico con Jany, forte della loro precisione puntuale, soprattutto nell’affrontare comodamente i cambi di registro emotivo che caratterizzano le composizioni della pianista originaria di Guantanamo. Al Cicconi, di fonte a una platea gremita, la leader ha presentato tra le altre, la sua bellissima melodia su ritmo ternario El vals de Los apasionados; il toccante tema A new stars in the skay, cullato con dolcezza elegiaca dal ritmo di un morbido bolero cubano, e scritto in omaggio ad un amico precocemente scomparso; lo scoppiettante Fire in my hand che mantiene quello che il titolo promette con tanto di uno scat vocale; una versione cantata della celebre Les Feuilles mortes, completa della strofa e arricchita da uno dei diversi assoli di contrabbasso magistralmente sviluppati con un fraseggio scioltissimo da Luca Bulgarelli. 

Quando la vox populi ha reclamato un bis, Jany si è dimostrata particolarmente generosa, regalando una interpretazione per canto e voce di Over the Rainbow, chiudendo sorprendentemente e insieme ai suoi partner con un vero e proprio atto d’amore verso la chanson française. La sua voce ha fatto percepire tutta l’emozione e la responsabilità nell’affrontare il commovente brano che Charles Aznavour ha intitolato La bohème: un melodramma di pochi minuti in cui lo chansonnier di origini armene ha saputo ricostruire quasi cinematograficamente, la scossa emotiva di quei momenti in cui ci si ferma per redigere il bilancio della propria esistenza. Una recherche del tempo perduto nel quale riverberano i tormenti per le occasioni amaramente mancate e le malinconie per i giorni felici fatalmente irripetibili. Nell’affollato Olimpo del jazz francese si è aggiunta una nuova protagonista che ha tutte le carte in regola per poter meritare l’appellativo di «sirena dei tropici», ricalcando il titolo del film muto del 1927 che ha avuto per la prima volta come magnetica protagonista, la seduttiva Josephine Baker. 



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