POLLINI, IMPEGNO E POESIA






Tra i doni ricevuti dalla Biblioteca e inerenti alle partiture musicali, il fondo più significativo è giunto dalla famiglia di Carlo Vidusso, figura di esimio concertista dotato di una facilità tecnica divenuta leggendaria che gli ha consentito di essere il primo pianista italiano a cimentarsi nei Dodici Studi Trascendentali di Liszt, suonandoli in una unica serata. Il problema alla mano che ha pregiudicato la sua carriera di solista ha contestualmente aperto quella di didatta severo e talentoso. Quasi tutte le partiture depositane presso la Biblioteca Centrale di Milano hanno il pregio di essere ineccepibilmente diteggiate dal Maestro, direttamente dalla sua matita che indica nota per nota la soluzione migliore per sciogliere i problemi più ostici anche per i pianisti consacrati dalla fama. Non sembra lontana dalla realtà la fantasia che questo patrimonio in cui alle partiture stampate sono aggiunte le indicazioni manoscritte utili all’esecuzione, sia stato la palestra privilegiata usata nelle lezioni a beneficio dei suoi allievi del Conservatorio di Milano, tra i quali ha figurato Maurizio Pollini, dopo aver iniziato a suonare il pianoforte all’età di sei anni e aver ricevuto una prima alfabetizzazione dal Maestro Carlo Lonati. Certamente il giovinetto era già prodigioso e avvantaggiato da una condizione familiare ideale per farlo crescere con una curiosità eterogenea in una Milano particolarmente vitale sotto il profilo musicale, dove sin da bambino era accompagnato ad ascoltare Rubinstein, Benedetti Michelangeli, Gieseking, Haskil, Fischer, Bakhaus, Cortot o l’entusiasmante Wagner diretto da Toscanini, il Ring di Furtwängler, il Wozzeck di Berg diretto da Mitropoulos alla Scala nel 1953 e naturalmente i concerti di Karajan. Passioni ereditate dal padre Gino, famoso architetto razionalista,  e da Renata Melotti, sorella dello scultore Fausto, che in gioventù aveva cantato e suonato il pianoforte. Di fronte ad un ragazzino che si annuncia molto promettente, Vidusso pone sul suo leggìo partiture per nulla facili anche per i professionisti più navigati, ma l’allievo supera tutte le prove più insidiose di slancio. Addirittura quando la sfida riguarda i terribili studi di Cramer, l’adolescente le suona a memoria senza alcuna titubanza né imprecisione. La prova fu così convincente che Vidusso, impossibilitato a partecipare ad un’edizione del Concorso pianistico internazionale Ferruccio Busoni dove era chiamato a coprire il ruolo di pianista esecutore per il concorso di composizione, non esitò a farsi sostituire da Pollini allora quattordicenne, suscitando un certo smarrimento dai membri della giuria che non potevano avere idea del suo talento. L’allievo eseguì impeccabilmente i brani in concorso e, fatto inusuale, anche in questo caso a memoria, nonostante il breve tempo a disposizione per apprenderli. Di fronte a questa ulteriore impresa, Vidusso nello stesso anno 1956 lo incoraggiò ad eseguire in pubblico l’integrale degli Studi di Chopin, rinomati per la difficoltà tecnica, e l’anno seguente a partecipare al Concorso Internazionale di Esecuzione Musicale di Ginevra dove Pollini si aggiudicherà i 600 franchi svizzeri previsti per il vincitore del secondo posto: per inciso quell’anno il primo posto fu assegnato a Martha Argerich. 





Tutto sommato, questi riconoscimenti in giovane età sono nell’ordine cose per chi ha già dato prova di essere un predestinato, ma nel 1960 avviene un evento assolutamente imprevedibile: Pollini vince il concorso Chopin a Varsavia che per i pianisti si può paragonare ad un premio Nobel che addirittura in certe annate non viene assegnato dalla giuria di inflessibile severità in cui, tra gli altri figurava Arthur Rubinstein. Ma in questo successo eccezionale c’è qualcosa che è ancor più eccezionale: fino a quell’anno nessun pianista occidentale era riuscito nell’impresa compiuta dal diciottenne milanese. Ci sarebbe da montarsi la testa anche perché quella vittoria ha richiamato le attenzioni degli organizzatori di tutto il mondo per avere Pollini nella propria stagione con un programma chopiniano. E qui, correndo il rischio di essere subito dimenticato, Pollini sceglie di non accettare nessun impegno per studiare e approfondire gli argomenti estetici, sviluppando una non comune capacità di coniugare alla musica raffinate riflessioni sulle altre forme d’arte. L’impegno in queste faccende pareva dimostrargli che la forma sonata,  l’endecasillabo, le combinazioni tra i colori, sono vie diverse per passare da una immagine mentale a un’opera concreta, conferendo una logica al mistero dell’irrazionale. A queste conclusioni si aggiungeva la consapevolezza che l’espressione artistica deve essere uno strumento volto ad incidere nel contesto civile. Contemporaneamente la sete di perfezione strumentale lo spingeva a seguire alcune lezioni di un Arturo Benedetti Michelangeli che, nonostante la sua posizione di monumentale punto di riferimento per tutti i concertisti del mondo, affermava di non aver molto da insegnargli. Trascorre così un anno e mezzo sabbatico che precederà l’attività molto contenuta di tutta la decade del ’60. Bisognerà attenere il 1971 per applaudire il suo entusiasmante debutto discografico in cui i Tre Movimenti da “Petrushka” di Stravinskj e la Settima Sonata di Prokofiev, che vengono registrati risultano essere ancor oggi esecuzioni di esemplare perfezione per la profonda comprensione di quelle pagine che attraverso la sua analisi concettuale, è il caso di dirlo, sono svelate. La decade appena iniziata è attraversata da turbolenze sociali che la segneranno come un periodo di grande partecipazione, di grandi conquiste, ma anche di battaglie tragicamente sfociate nel terrorismo e da guerre che hanno colpito duramente intere popolazioni. Pollini, come già accennato, sente l’esigenza di non restare nella torre eburnea di un successo corrispondente alla sua grandezza di strumentista, quindi si fa testimone dell’importanza essenziale che il ruolo della musica ricopre nei processi di trasformazione della società. Le sue posizioni politiche sono approfondite con lo stesso criterio analitico con cui esplora le pieghe delle creazioni artistiche che decide di interpretare,  trasformandole in leggendarie interpretazioni musicali. Al suo fianco ha come alleato l’amico di sempre Claudio Abbado, con cui condivide l’idea della musica come strumento di miglioramento della società, di lotta alle disuguaglianze, di progresso civile e di mezzo per richiamare le coscienze sulla follia della guerra. In quegli anni i due amici non sono i soli ad essere militanti, ma appartengono al gruppo di quell’élite senza potere  Luigi Nono, Bruno Canino, Giacomo Manzoni, Luigi Dalla Piccola, Goffredo Petrassi, Carlo Pestalozza, Piero Rattalino e molti altri. Tutti questi musicisti firmeranno insieme a Pollini e ad Abbado il documento che Pollini stesso decise di leggere il 19 dicembre 1972, in occasione del recital organizzato dalla Società del Quartetto di Milano presso la Sala Verdi del Conservatorio omonimo. 





Di fronte una platea gremita, Pollini prima di iniziare estrae un foglietto facendosi portavoce di un comunicato di protesta. Dopo aver letto poche righe esplode caos con gli  spettatori infuriati appena il pianista pronuncia una parola che suonava irricevibile in quel contesto. Quella parola era Vietnam, e il comunicato intendeva proprio stigmatizzare in poche righe i bombardamenti nordamericani che nei giorni precedenti si erano abbattuti su Hanoi facendo oltre 1000 morti tra i civili. Il documento non fu letto per intero vista la convulsa sommossa del pubblico indignato. Nacque un caso amplificato dalla stampa. Indro Montanelli si schierò contro Pollini, ritenendo “imperdonabile” il suo tentativo di mescolare arte e politica, mentre Eco prese le difese del musicista in un articolo pubblicato un mese dopo sul quotidiano Il Giorno con un titolo che è tutto un programma: La bistecca e la politica, dove sottolineava che “la platea dissenziente ha ricordato a Pollini, e a tutti noi, che per i gestori e le vittime consenzienti di una società dei consumi, l’arte è un bene gastronomico”. Al disastro milanese, seguì il trionfo di un concerto che Pollini ha tenuto all’inizio dell’anno successivo al Teatro Comunale di Bologna, cogliendo anche qui l’occasione per denunciare gli orrori della guerra, contribuendo a scuotere il pubblico e molti altri colleghi sul tema della pace e dell’antimilitarismo. Presto quegli interventi non saranno rivolti alle platee teatrali ma ai lavoratori e agli studenti che non si sarebbero potuti permettere di pagare il costo dei biglietti, e che ora accorrevano per ascoltarlo nei famosi concerti sotto i tendoni  dell’epoca di Paolo Grassi, proposti ad un prezzo politico. Iniziarono a quel tempo anche i concerti nelle fabbriche, assieme all’amico e sodale Claudio Abbado, di fronte a platee di operai attoniti che però, grazie al suo carisma d’interprete, ascoltavano in religioso silenzio pezzi quali Como una ola de fuerza y luz di Nono, un lavoro complesso e straordinario, che tra il 1971 e il 1972 ha visto il compositore  cimentarsi per la prima volta con un’opera dove il pianoforte è protagonista e dialoga con l’orchestra, un soprano che intona alcuni versi del poeta argentino Julio Huasi e il nastro magnetico registrato nel mitico Studio di Fonologia di Milano dal tecnico Marino Zuccheri. 



Abbado, Nono, Pollini


Cinque anni dopo Nono dedicò a Pollini e a sua moglie  Marilisa il suo brano …Sofferte onde serene…, influenzato dal “duro vento della morte” che in quell’anno spirava colpendo il compositore con la perdita dei genitori, la moglie di Pollini vittima di un aborto spontaneo e tutta la musica contemporanea italiana con la scomparsa di Bruno Maderna e Gian Franco Malipiero. Questa composizione debuttò alla Scala ma nel frattempo i tendoni e le fabbriche, continuavano ad ospitare la grande musica da concerto che aveva finito di essere un privilegio borghese, diventando patrimonio di tutti e per di più strumento di solidarietà e di sostegno alle lotte operaie come nel caso della Paragon, una grossa fabbrica tipografica di Genova occupata per protestare contro i licenziamenti risultanti dalla cessione dell’azienda avvenuta nel 1972. In un capannone grembo di operai, sindacalisti e parenti, l’Orchestra del Teatro “Carlo Felice” di Genova e il maestro Maurizio Pollini suonano il Concerto Imperatore di Beethoven. Fortunatamente l'iniziativa non è restata nella memoria di chi vi ha partecipato ma è stata documentata nel film Concerto in fabbrica (1972), diretto da Maurizio Rotundi che coglie l’ambiente, l’attenzione, la partecipazione. E’ un piccolo miracolo che il giovane Giulietto Chiesa, allora militante della federazione genovese del PCI sintetizza così:  «È dal 1969 che la classe operaia e le classi lavoratrici in generale hanno preso coscienza che tutta una serie di strumenti culturali, che fino ad ora non sono mai stati messi a loro disposizione, possono cambiare di padrone». 






Un ragionamento coerente con quanto sostiene Pollini dicendo che «la musica è un diritto di tutti», e quindi aggiungendo alla sua natura di creazione individuale del compositore, quella di arte universalmente formatrice. Insieme all’affermazione di queste istanze transitive il pianista non ha mancato di esprimere le sue idee civili e politiche pubblicamente, criticando con argomentazioni fondate i governi in carica, fino all’intervento diretto contro Berlusconi in occasione del convegno “Libertà e Giustizia” al Palasharp di Milano nel 2011. Anche più recentemente non ha mancato di intervenire rispetto ai temi ambientali dichiarandosi preoccupato per le sorti del pianeta minacciate dalle emissioni di gas, e ritornando anche sul tema della pace che aveva perorato già dai tempi della guerra in Vietnam, dicendo «Occorre dire con forza, oggi più che mai, un fermo no a tutte le forme di violenza»I tempi della contestazione subita al conservatorio di Milano nel 1972 sono cambiati e la Società del Quartetto ha organizzato, giusto  cinquant’anni dopo nel giugno del 2022, un concerto straordinario dove Pollini si è prestato gratuitamente per raccogliere fondi destinati alla Croce Rossa impegnata sul campo nella guerra che sta devastando l’Ucraina. In una delle sue ultime dichiarazioni commentava: «Stiamo vivendo un momento molto difficile. Per la cultura, ma non solo. Guardo con preoccupazione alla riforma della giustizia, del federalismo, del presidenzialismo. I rischi antidemocratici sono tanti» […]. Questo profilo civile che ha accompagnato per tutta la vita Pollini come un dovere prioritario a cui deve rispondere ogni cittadino, non è certamente quello di un rivoluzionario ma di un sensibile progressista. La rivoluzione di Pollini avviene invece nel cuore della musica e interessa i’interpretazione che viene orientata verso l’ambizioso obbiettivo di essere fedele al compositore penetrandone lo spirito e i processi concettuali, con un’azione che mira alla ricerca del contenuto di verità di ogni singola partitura. Si tratta di quell’approccio adorniano, serio, rigoroso, faticoso, che distingue sostanzialmente un’esecuzione moderna da una del passato. Per intraprenderlo Pollini non concede nulla alla retorica tenendo costantemente in equilibrio forma e contenuto, ragione e sensibilità, poesia e concetto, colori e dinamiche, timbri e agogica. Tutto è pesato maniacalmente avvalendosi di un controllo tecnico-strutturale dove ognuno dei dettagli elencati contribuisce a ri-creare la vera natura di un’opera, penetrando le trame sotterranee della dimensione formale, senza scivolare in un formalismo asettico. Da questo tormentato corpo a corpo con quello che il compositore ha trasmesso sul pentagramma deriva la sua attenzione quasi beckettiana alla forma e ai suoi labirinti, al ritmo e alla struttura della frase, in una ricerca ossessiva dell’esattezza, dell’essenzialità, evitando qualsiasi iniziativa che potesse deviare dal messaggio dell’autore. Seguendo questi principi, Pollini ha rivoluzionato la percezione dei compositori che ha amato inserendoli nel suo ampio repertorio: in primis la Trinità dei romantici, Beethoven, Schumann e Chopin, ma anche Schubert, Debussy e gli avanguardisti novecenteschi da Schönberg, di cui ha inciso tutte le composizioni per pianoforte, a Berg e Webern; da Luigi Nono a Giacomo Manzoni, da Pierre Boulez a  Karl Heinz Stockhausen, fino a Salvatore Sciarrino che nel 1994 gli dedica la sua V Sonata con 5 finali diversi. 


Pollini e Boulez


Se il Listz di Pollini è essenzialmente filologico, restituito a un clima riflessivo, introspettivo, meditativo quasi da autoanalisi freudiana, ascoltarlo alle prese di Chopin dà la sensazione di essere di fronte ad un esercizio spirituale dove il controllo del gesto misura microscopicamente il peso del tocco sulla tastiera, dando luogo ad un disegno chiarissimo, contenuto, di una perfezione trascinante che non lascia spazio al sentimentalismo, rimuovendo tutti quegli apparati ridondanti di leziosità svolazzanti che hanno erroneamente fissato il paradigma del gusto in cui il compositore polacco è riconosciuto e consacrato. Paradossalmente, correggendo le incrostazioni esecutive con cui si è manifestata la proiezione romantica dell’Ottocento, imperlata di sospiri palpitanti, di slanci struggenti, di turbamenti emozionali, la verità emergente da questo radicale cambiamento della concezione interpretativa ha permesso di scoprire quante anticipazioni novecentesche emergano da una lettura fedele della scrittura di Chopin. Accolte inizialmente con critiche velenose rivolte a questa nuova idea di filologia musicale, le esecuzioni di Pollini sono state interpretate da alcuni recensori come segno di un rigore troppo intellettualistico, mancando d’intuire che la sua elegante compostezza non sottraeva i momenti di abbandono e gli aspetti consolatori per via di un temperamento algido, ma per concentrarsi ad arte in una bolla addirittura contemplativa, per combattere contro la natura neutra del pianoforte e sottolineare con folgorante esattezza  come dalle melodie melanconiche o appassionate e dall’inventiva armonica dei romantici salisse un grido di dolore. In questo senso Salvatore Accardo ha colto il nocciolo della questione affermando che Pollini non suona mai per dimostrare di quali acrobazie virtuosistiche è capace, ma per far percepire all’ascoltatore quanto è bella la musica che sta facendo. Anche la lettura di straordinaria modernità che ha interessato Beethoven, è stata per Pollini un vero esercizio di analisi culturale che, nel solco di Adorno, ha contemplato ragioni estranee alla musica e riguardanti gli aspetti storico sociali. La sua operazione interpretativa sottolinea la natura rivoluzionaria del Titano di Bonn, rendendo trasparenti quei germi di dissoluzione iniettati nel sonatismo classico, introducendo con costanza e cautela elementi formali capaci a lungo andare di usurare e quasi rompere le strutture portanti di quella forma. E a concludere la terna dei suoi romantici adorati  c’è Robert Schumann che sotto le sue dita mosse da una religiosa purezza filologica, rivela tutta la forza della sua ’estetica visionaria: esemplare fra tutte è la magistrale interpretazione degli Studi Sinfonici che Pollini per primo ha registrato integralmente distillandone ogni particolare per farne affiorare l’importanza. Questi procedimenti sono stati un modello che Pollini ha sempre coltivato nei suoi repertori, applicandoli sia a pagine classiche o romantiche, sia a composizioni dell’avanguardia novecentesca, sia a quelle ancora fresche d’inchiostro. 



Spesso i suoi concerti prevedevano proprio di giustapporre la musica classica e romantica con quella contemporanea, creando cortocircuiti sorprendenti. Così dopo un Beethoven, uno Scubert, un Mozart, un Bach, poteva seguire una composizione dell’amico Luigi Nono o una iconoclastica, parossistica, monumentale sonata di Boulez… evidentemente tutto a memoria a dispetto delle impressionanti difficoltà e fino agli ultimi concerti che hanno concluso una carriera durata più di sessant’anni. Quando Maurizio ci ha lasciati anche il Presidente Mattarella si è sentito in dovere di pronunciare qualche parola su questa perdita, descrivendolo come “un poeta del pianoforte” e forse intendendo questo titolo nella dimensione in cui Paul Valéry poteva definire la poesia nel momento della della sua creazione: una «hésitation prolongée entre le son et le sens».

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