L’ILIADE E D’ELIA MIRANO AL CUORE
Nella delizia ottocentesca del Teatro Cortesi di Sirolo, Corrado D’Elia ha proposto in solitudine la sua trasposizione teatrale dell’Iliade, capolavoro avvolto nell’enigma dell’insolubile questione omerica che qui proviamo a risolvere tenendo per buona la tesi dell’emerito Ulrich Wilamowitz secondo cui “tutta la poesia epica, intorno al 500 aC, è poesia di Omero”. Nell’incarnare le vicende della più celebre guerra dell’antichità, combattuta dai greci contro i troiani per nove anni e giunta ai cinquantun giorni cruciali che ne favoriranno l’epilogo, D’Elia riconduce il poema alla potenza espressiva della voce, riportandolo all’oralità originaria delle forme di racconto; all’epos eroico raccolto e trasmesso dagli aedi, la cui verve interpretativa ha dato imprescindibile forma sonora e musicale alla poesia. La drammaturgia creata a proposito non ricorre a destrutturazioni o stranezze artificiose, ma affronta con reverente empatia il poema ricavandone una sintesi fermamente compatta e compatibile con la durata ideale per uno spettacolo sviluppato in un atto unico. Seguendo questa impronta, gli ingranaggi della narrazione funzionano perfettamente grazie alla loro armonia ricercata, catturando il pubblico nel sistema di significanti e nel reticolo fitto di tracce ideati dal leggendario proto-poeta non vedente e padre dell’epica. Amante attento e colto della parola poetica, Corrado D’Elia traduce dal greco il poema rendendolo più snello e vicino allo spettatore di oggi, e quindi emancipando il testo dalle versioni paradigmatiche come quelle della portentosa traduttrice novecentesca Rosa Calzecchi Onesti, o dell’ispido e genialmente cervellotico Vincenzo Di Benedetto, o infine, dal più recente, plurilingue, meditato e felicemente espressivo lavoro di Franco Ferrari.
La sua fatica ha puntato a catturare rigorosamente l’essenza del testo originario, estraendola dal gelo della pura sintassi e liberandola dal calco filologico, per conferirle ritmo e respiro teatrale, contribuendo a dare risalto alla purezza di versi in cui sono prodigiosamente racchiusi insieme l’archetipo e il paradigma del nostro sentire. Versi letteralmente vivi e umanisti dove il fato, come intuisce Rodolfo Mondolfo, “non esclude la responsabilità dell’uomo, cui spetta determinarne con la sua azione il corso”. Versi in cui l’uomo è per la prima volta responsabile del suo operare, diventando creatore del proprio destino con le proprie decisioni: Achille, Patroclo, Ettore, Aiace,… tutti decidono di parlare o di tacere, di combattere o di fermarsi, di agire in un modo anziché in un altro, in base ad una loro scelta non in base ad una decisione degli dèi. Versi che hanno insegnato agli antichi quello che Simon Weil presagisce poco prima che esploda la tragedia del secondo conflitto mondiale: “Gli ascoltatori dell’Iliade sapevano che la morte di Ettore avrebbe dato breve gioia ad Achille, e la morte di Achille breve gioia ai Troiani, e la caduta di Troia breve gioia agli Achei.
Così la violenza stritola quelli che tocca”. Versi che D’Elia articola secondo uno stile sostenuto e versatile marcato dalla ricerca fonica, tessendo una giostra di emozioni con i fili sottili delle sfumature timbriche: un arazzo ricamato con i colori della vocalità, ora materialmente vischiosi, ora delicatamente fluidi, dall’urlo straziante di Achille che descrive un’onda spaventosa di vibrazione tellurica, al suo singhiozzo accorato che apre uno spiraglio di misericordia nel muro d’ira verso Agamennone, fino ad allora insuperabile. Il suo scrigno sonoro ha un patrimonio di toni iridescenti, asprissimi o gementi, morbidi o turbolenti, passionali o disperati, angosciati o impauriti, teneri o lacrimosi, fragorosi o sussurrati, ma mai declamatori. L’attore, utilizza queste diverse declinazioni con la minuzia di un miniaturista medievale per fare uscire i personaggi dall’orizzontalità della pagina lirica e renderli animati, rinforzandone il carattere attraverso una gestualità anche minima che tormenta la postura del viso, del corpo e soprattutto degli arti superiori. Sempre seduto su un alto sgabello, i suoi non sono grandi gesti ma gesti della grandezza come quello di un braccio che, accompagnato dallo sfondo musicale di minacciosi tamburi, disegna una scheggia di danza scandendo il ritmo della parola nel decorare lo spazio vuoto con esatte forme evocative. In esse si condensa un’azione scenica che non ha bisogno d’altro se non del movimento espressivo delle mani, delle braccia, dell’inclinazione del volto o dell’intensità dello sguardo: una dinamica dove i gesti travalicano nella visione con i loro irrequieti graffiti senza spessore disegnati sulla superficie liscia dell’aria. La loro elegante teatralità si offre come un catalogo balenante di immagini dialettiche in quanto riconoscibili: lo scoccare di una lancia, la parata di uno scudo, il vibrare delle corde di una cetra, il precipitare di una polvere rosa che annuncia l’alba, il pianto che irradia il sale delle lacrime…. e persino quello che allude al risucchio di un’anima. Regia, autorialità, performance si mescolano nella rigorosa agorà dove prende vita il racconto come rito teatrale, combinando la vocalità con un paratesto particolarmente efficace. Translandolo da dall’espressione usata per nominare uno specifico linguaggio dell’arte contemporanea, viene la fantasia di ricondurre l’insieme di questo paratesto al campo della cosiddetta poesia visiva che nella circostanza coinvolge la gesualità, la scenografia, le luci. Insieme ai succinti inserti musicali, questi elementi creano i migliori presupposti per indirizzare il pubblico ad un ascolto profondamente emozionale.
Viatico ideale per scoprire, o riscoprire, come da questo poema primigenio emergano sentimenti di portata universale che “mirano al cuore”, come pensa Leopardi in una considerazione di straniata meraviglia e stupore, circoscritta in poche righe sul suo Zibaldone. Sentimenti che attraversano i secoli annidandosi nell’uomo e agendo con la stessa forza anche nel nostro vivere contemporaneo: l’amore, responsabile del casus belli ma anche rifugio di placida felicità o incandescenza di intimità segrete; i veleni dell’odio per i nemici e per la vendette; la vergogna come sanzione interiore e sanzione sociale e la gloria come obbiettivo per sottrarsi alla vergogna o come missione imprescindibile verso il successo; l’ira che acceca inesorabilmente e l’indifferenza che nasce dal rancore; la crudeltà impetuosa di cui si macchia l’eroismo; la misericordia che riesce a squarciare le regole, guardando i vinti con gli occhi della compassione; la sete di dominio con la sua avida tracotanza e il maschilismo patriarcale che cova la violenza verso il femminile: soprattutto l’etica omerica che, ancora con Rodolfo Mondolfo, riguarda “il concetto di una infrangibile concatenazione tra l’azione e le conseguenze di essa”. Etica che dalla sua altezza si incarna nel tragico cancellando l’alterità tra amici e nemici, per illuminare di verità universale la testimonianza del poeta nel cogliere il senso fatale dell’umanità tutta. Detto questo è necessario precisare che l’idea di teatro in cui riconoscere il lavoro di D’Elia include le radici nobili delle migliori esperienze novecentesche nello spirito contemporaneo, un teatro che è una sorta di università popolare estranea a qualsiasi cipiglio pedagogico, didascalico o divulgativo. Nonostante ciò va aggiunto che uno degli scopi affidati alla sua Iliade è quello di “mirare al cuore” del pubblico risvegliando la sua curiosità verso questa pietra miliare, innescando stimoli, dischiudendo sentieri, suggerendo problemi e lasciando che a risolverli ci provino gli spettatori stessi: e qui, per chi avesse intenzione di rileggere il poema omerico nella nostra lingua, caldeggio modestamente la versione di Franco Ferrari precedentemente menzionata. Così l’Iliade di D’Elia, in questo presente che attraversa le nostre vite nel segno di una complessità opaca, fragile e liquida, invita a riconquistare un tempo per la poesia che rende eterno ciò che perisce, la poesia che secondo Tolstoj consente di accedere alla sublime sovrapposizione tra verità e bellezza.
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