Il No di Pablo Larrain

Chi sono Raul Peralta, Mario Cornejo e René Saavedra? Sono tre cileni piccoli piccoli a cui il connazionale Pablo Lorrain affida il compito di vivere negli anni della dittarura di Pinochet. Il primo è un mediocre ballerino che è ossessionato dall'idea di diventare la copia perfetta di Tony Manero, l'indimenticabile Travolta di "La febbre del sabato sera"; il secondo è un inquietante impiegato dell'obitorio di Santiago, indifferente di fronte le vittime della dittatura che si accumulavano, compresa quella di Allende, ma infuocato di passione per una spogliarellista non proprio fedele; il terzo è un giovane regista a cui è affidata la missione impossibile di realizzare uno spot televisivo, da ripetersi nei diciassette minuti concessi all'opposizione, per convincere i cileni a spodestare Pinochet  nel plebiscito che quest'ultimo ha dovuto indire.


Pablo Larrain

Nel suo trittico di film, Larrain ha accumulato molti meriti da diversi punti di vista, utilizzando la cinepresa per tradurre in un'estetica originale, la lucidità di una memoria politica che il paese ha cercato di rimuovere, anche con l'aiuto del neoliberismo in cui è precipitato in seguito. Quello che mi sembra il filo conduttore di questi lavori, ed insieme l'aspetto più saliente della sua opera, riguarda la convincente ricerca intorno alle immagini e alle modalità della loro ripresa. Un approccio che possiamo definire politico per il contenuto critico rispetto al perfezionismo digitale che ha sedotto schiere di registi verso un edonismo inutile, impigliando il loro cinema nella rete commerciale che lo degrada fatalmente a strumento di consenso. Insomma, Larrain sottrae le sue riprese alla sottile egemonia delle immagini che catturano il pubblico per la loro qualità persino iperrealista, evitando l'omologazione plastificata di un'immagine che ha assunto il ruolo di comunicatrice mediatica, in grado di orientare  le opinioni di un corpo sociale ormai palesemente deideologizzato.



Questa proposta si avvertiva  già nei primi due titoli , "Tony Manero" (2007) e "Post mortem" (2010), dove il taglio delle immagini acquista un esplicito valore metaforico, trascinando lo spettatore in una Santiago sudicia e opprimente  così come erano quegli anni criminali di Pinochet. Per farlo, il regista ricorre ad una tecnica analogica, a tratti addirittura di bassa fedeltà, volutamente rudimentale, grezza e perfino sbagliata.



Ma è nel terzo film, "No. I giorni dell'arcobaleno" (2012), che l'immagine diventa protagonista della storia e strumento vivo di battaglia politica. Non siamo più nel cuore della dittatura come nei due film precedenti, ma all'epilogo dell'egemonia militare, quando il generale è costretto da insostenibili pressioni internazionali,  ad indire un referendum popolare dove viene chiesto un sì, a coloro che ancora sostengono il leader ed un no a chi desidera destituire il governo antidemocratico. Come si può ben immaginare la proppaganda di regime utilizza una svariata profusione di mezzi per assicurarsi il consenso, mentre ai dissidenti non resta che far ricorso soprattutto alla propria passione, viste le scarse finanze economiche di cui dispongono. A misurare questa abissale differenza di forze, c'è anche lo spazio che la televisione di stato assegna alle minoranze: solo diciassette minuti per tutta la campagna. Il compito di cogliere il massimo da questa risicata opportunità, è affidato ad un giovane regista che ha studiato negli Stati Uniti e che ha confidenza con la relazione tra l'immagine, la comunicazione e il marketing. René Saavedra, sceglie di dar luogo ad una narrazione che non è condivisa con la base che lo ha assunto. Mentre questa crede di dover mostrare le atrocità commesse dai militari, Saavedra opta per una linea che metta in risalto l'ottimismo, la solarità, l'allegria di chi confida fiduciosamente in un futuro che segni una discontinuità con il presente: il suo lavoro si intitolerà "Chile, l'alegria ya viene". Ed è proprio attraverso questa modalità (noi italiani l'avremmo conosciuta a breve, suffragandola per un periodo lungo più di un ventennio e che stenta ad esaurirsi) che il pronostico schiacciante in favore del sì viene ribaltato, costringendo Pinochet a cedere il potere, accettando la volontà popolare e il ritorno della democrazia.



Larrain ci racconta quindi, da dove passa il consenso e come questo possa essere distante da una profonda presa di coscienza. Anche in questo caso, la sua acuta attenzione a selezionare gli strumenti tecnici più adatti alla vicenda, gli fanno preferire le attrezzature dell'epoca in cui si sono svolti i fatti (1988), evitando accuratamente di cadere nel baratro di un'immagine perfetta, HD o addirittura tridimensionale, inadatta a leggere quella realtà con i suoi sogni, come poderosamente efficiente nel globalizzare i valori sul piatto gelido dell'omologazione. In Italia, ma credo anche all'estero, la risposta a questo entusiasmante cinema politico è che la distribuzione di Larrain passa come un lampo nelle sale  di prima e ormai quasi unica visione. Fortunatamente, la vita del film ha una coda nei cinema di quartiere, outsiders che si ostinano a resistere con coraggio in un ambiente sociale attratto dalle vertiginose multisala del centro (storico o commerciale che sia). Qui a Milano ce ne sono due che conosco e apprezzo per la loro attenta programmazione: lo storico Cinema Mexico, dove per anni si sono prolungate le inteminabili e seguitissime repliche del cult "Rocky Horror Pitures Show", e il Cinema Palestrina, nella via omonima, rinnovato, economico, comodo. Piccole voci che dicono no, in una Milano sempre meno curiosa.

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