ALLE RADICI DELL’EMOZIONE CON IL CONCERTO DI DANZA PIAZZOLLIANO




Prima che gli spettatori del Teatro Fenice di Senigallia si immergessero tutto d’un fiato nei circa ottanta minuti dell’entusiasmante concerto di danza intitolato Astor, un secolo di tango, quando il sipario è ancora chiuso mentre la mezze luci della sala stanno spegnendosi lentamente, lo spettacolo viene introdotto da un incipit sonoro: una sorta di sciabordio che allude ad un piroscafo prossimo all’approdando. Non è un fatiscente barcone di profughi contemporanei che sta attraversando tra mille pericoli il nostro Mediterraneo insanguinato, ma il soggetto della narrazione fa pensare ad una delle navi che agli inizi del novecento partivano quotidianamente dal molo di Genova alla volta del’Argentina dove ne arrivavano cento al giorno. Ad attenderli il porto di Buenos Aires con quel “cielo giallo” che descrive il poeta Dino Campana quando, mischiato ai migranti economici, lo avvista  come in un’allucinazione nell’ultimo tratto in cui il mare si mescola alle acque dolci e torbide del Rio de la Plata. Incoraggiati dalle promesse che dipingevano quel paese lontano come un fiabesco Eldorado, su una di quelle navi si erano imbarcati i coniugi Piazzolla, fuggendo disperatamente da un’Italia poverissima, come tutti gli altri passeggeri. Proseguirono ancora più a Sud stabilendosi a Mar del Plata dove festeggiarono la nascita del loro primogenito Astor. Ma intanto il sipario si è alzato e la musica ha seguito la suggestione dell’acqua con la struggente melodia di Soledad, il terzo movimento di una suite per balletto che Piazzolla ha scritto nel 1969 per il grande coreografo argentino Oscar Arraiz, intitolandola Silfo y Ondina: Silfo lo spirito dell’aria e Ondina, che per la mitologia greca è Ninfa, lo spirito dell’acqua. Il regista argentino Carlos Branca ci trascina immediatamente nell’incanto con la musica di Piazzolla che disegna questa melodia come una spirale magnetica, appoggiandola delicatamente sul ritmo lento dell’antica milonga campera, bordone chitarristico eletto dai payadores per accompagnare i loro versi improvvisati, quando ancora il tango non era nato. E’ il primo segnale della competenza da raffinato conneisseur di Branca che nell’occuparsi della realizzazione dello spettacolo, ha articolato una  scaletta musicale non solo implacabilmente emozionante ma anche corredata dai puntuali riferimenti biografici necessari a proporre il profilo artistico di Piazzolla con precisione certosina.



Per comprendere il valore dell’architettura immaginata dalle scelte musicali opzionate, e preliminarmente all’analisi del magnifico lavoro di Valerio Longo che ha creato le coreografie per gli otto ballerini della compagnia Balletto di Roma, accreditata unanimemente dal sigillo dell’eccellenza, è quindi utile elencare i vari brani nell’ordine in cui sono apparsi. A questo proposito va sottolineando che in scena Mario Stefano Pietrodarchi suona il bandoneon sulle basi arrangiate con sensibilità da Luca Salvadori, anche autore di tutte le musiche originali dello spettacolo, ma soprattutto attento e discreto nell’uso di sonorità elettroniche che in altre circostanze hanno finito per profanare la natura esclusivamente acustica e intrinsecamente poetica della musica di Piazzolla. Anche il secondo tema è cadenzato sul ritmo lento della milonga campera che, insieme alla tensione lirica della melodia, persevera nell’estetica sognante e melanconica d’inizio spettacolo: si intitola Milonga del diablo, ed appartiene al trittico di composizioni dedicate del diablo. A questo punto Branca propone il primo degli inserti di repertorio che lungo lo spettacolo hanno avuto il compito di rievocare episodi cardine nella vita di Astor. Si tratta della sua seconda emigrazione decisa dal padre di Astor che prende un’altro bastimento con la famigliola, confidando in apocalittiche speranze di riscatto. Questa volta a quel povero barbiere pugliese, sembra opportuno portare i congiunti a  Nord per afferrare finalmente la fortuna a New York. Lì i Piazzola si sarebbero stabiliti nel dedalo di uno slum periferico dove si concentravano soprattutto gli emigranti ebraici, con i loro riti, le loro usanze e la loro musica che resterà nel bagaglio di risorse a cui attingerà Astor negli anni della sua maturità di compositore. Ed è proprio nella Grande Mela che il piccolo Astor era atteso dal destino: il momento preciso fu il giorno di un suo compleanno in cui il padre Nonino gli mise tra le mani un bandoneon invece del pallone che il bambino desiderava. Questo passaggio a New York , oltre al contatto con la musica yiddish, ha avuto altri due episodi fondamentali nella formazione estetica di Piazzolla: il primo è stato l’incontro con Gardel che lo invitò anche a partecipare in un suo film Paramount, facendo la piccola parte di un venditore di giornali; il secondo è stato quello con la musica jazz. Proprio per sottolineare questa passione adolescenziale e raccontarci gli anni newyorkesi di Piazzolla, il regista inserisce nella scaletta la registrazione frusciante di Take the A Train, una delle pagine emblematiche dell’infinito repertorio composto da Duke Ellington, immenso protagonista della musica afroamericana e adorato da Astor. Una sferzata d’energia vorticosa cambia il climax, che finora aveva accompagnato uniformemente lo spettacolo, con La Muerte del Angel in cui Piazzolla inserisce nel tango un elemento assolutamente eterogeneo rispetto ai canoni di questo genere: la fuga a quattro voci realizzata con tecnica che lui aveva perfezionato studiando composizione con un Alberto Ginastera. Al termine arriva il secondo inserto registrato: è un’incisione dei primi anni trenta con la voce di Gardel che intona Volver, un inno al desiderio di ritornare con le parole del suo poeta Alfredo Lepera e presagio di un ritorno che i due non riusciranno mai a compiere, morendo nel fuoco sulla pista dell’aeroporto di Medellin per l’incendio del loro aereo che sarebbe volato dopo una lunga turnèe verso la loro Buenos Aires querida. Ancora il ritorno è il tema di Vuelvo al Sur che risentiremo più avanti nella registrazione appartenente alla colonna sonora di Sur, straordinario film di Pino Solanas che in quella circostanza la fa interpretare dalla voce roca, disfatta, espressiva di Roberto Goyeneche. 



Dalla poesia di questa terza milonga campera, coniugata con una cellula ritma che mantenendone gli accenti è mutuata da quella musica yiddish a cui accennavo, si arriva alla bruciante intensità di Escualo che Pietrodarchi interpreta con la fisarmonica e non con il bandoneon: Piazzolla, curiosamente appassionato di squali, compone questo vertiginoso pezzo di bravura nella sua casa di Punta del Este in Uruguay, inserendo la clave ritmica caratteristica del candombe, vale a dire quella della musica più identitaria per il popolo uruguayo. In quella casa di vacanze spensierate Astor invita Horacio Ferrer, un giovane poeta uruguayano che era anche fans della sua musica: con lui metterà a punto una nuova forma di tango cancion. Preliminarmente, il loro sodalizio iniziò con un progetto assolutamente innovativo nel tango: la creazione di una vera e propria opera in sedici quadri, che intitoleranno Maria de Buenos Aires. Da questa “operita” è tratta la citazione registrata che nella scaletta segue Escualo: il frammento è estratto dal tema Milonga de la Anunciacion in cui è stato particolarmente emozionante riconoscere la voce di Milva che secondo lo stesso Astor era la cantante e il personaggio impetuosamente carismatico, ideale per incarnare la misteriosa Maria protagonista del libretto criptico di Ferrer, che la fa nasce, morire e rinascere: metafora stessa della metropoli argentina che, come ricorda un testo di Borges, è stata rifondata sulle sue ceneri. Siamo nel 1968 e Piazzolla non è affatto amato in patria perciò, al contrario di quello che avevano fatto suoi genitori decide di stabilirsi in Europa. Detto fatto, ritorna a Parigi dopo esserci stato a metà degli anni ’50 per studiare composizione con una maestra rinomatissima e inflessibile come Nadia Boulanger , a cui deve il suggerimento di rinunciare alle sue velleità di compositore accademico per continuare con il tango che presto lui stesso avrebbe rivoluzionato.


Branca sottolinea questo passaggio parigino senza ricorrere ad una delle splendide incisioni che Astor ha realizzato nella Ville Lumiére, ma utilizzando la registrazione di un delizioso valse intitolato Sous le ciel de Paris. Ancora la forma fugata apre Primavera Portena, una delle quattro stagioni dedicate a Buenos Aires, composizioni molto strutturate che Astor desidera strappare all’etichetta di tango per rubricarle come Musica de la Ciudad de Buenos Aires. Con un deciso cambio di registro si ritorna alla milonga campera, forse la più drammatica tra quelle composte da Astor, Milonga del angel. E questa atmosfera straziante è il prologo al viaggio in Italia dove Piazzolla ha abitato tra Roma e Milano. A Roma apprende della morte del padre Nonino e in questa dolorosa occasione riprende un vecchio tema che ha ancora la struttura del tango classico, rimodulandolo e forse arrivando alla meta che qualsiasi artista ambisce ma per molti resta una chimera: il capolavoro. Il simbolo araldico della musica di Piazzolla che nella fattispecie non coincide con la catarsi del dolore per la perdita del padre, ma è l’unico modo che l’autore ha per riuscire a pronunciarlo davvero, andando come nelle tragedie greche dal pathos al mathos, cioè dalla sofferenza per un dolore nero che desertifica la mente e il cuore, a uno stato di agnizione liberatoria. 


Da Nonino che era il titolo originario di questa composizione, nasce quell‘Adios Nonino suonato immancabilmente da Astor in tutti i concerti della sua vita: non poteva mancare nell’elenco dei brani selezionati per lo spettacolo. A Milano Piazzolla incontra un suo idolo del jazz, quel Gerry Mulligan che lo aveva molto influenzato quando negli anni cinquanta lo aveva ascoltato a Parigi con il tentette a cui si ispirerà per il funambolico Octeto de Buenos Aires creato al suo ritorno in patria nel 1955. Con Mulligan Piazzolla registra l’album Summit dal quale Branca propone un frammento in cui si ascolta il sassofono del baritonista americano. E ancora del periodo italiano è lo straordinario Oblivion che segue, tema conduttore della pellicola che Marco Belloccio ha girato sulla traccia dell’Enrico IV di Pirandello. Tra le diverse colonne sonore realizzate da Piazzolla anche quella di Sur da cui abbiamo ascoltato il rifacimento di Vuelvo al sur che ora è riproposto con la registrazione originale. Siamo sotto il finale e credo che anche chi tra il pubblico ha un’idea molto vaga della musica di Piazzolla, abbia ascoltato un tema così popolare da essere utilizzato dalla pubblicità o interpretato in una versione dance da Grace Jones: Libertango. Fondale rosso, Pietrodarchi al centro di una luce che cade dall’alto disegnando un cerchio intorno a lui, i ballerini in calzamaglia nera che di muovono sulla circonferenza: un inno applaudissimo e necessario che, se fosse il finale dello spettacolo sarebbe risultato prevedibilmente banale. Ma Branca non cade in questa facile ovvietà e riserva al pubblico un’altra emozione, e nel cambio di luci che si fanno notturne e intime, sulla scena rimangono il fisarmonicista e una ballerina: è un’Ave Maria laica di sostanza eterea, riverberi mistici e apollinea solennità  che Astor ha dedicato a Milva. Agglutinato in tutto questo fertile universo musicale, il linguaggio coreografico utilizzato da Valerio Longo rivela il piacere voluttuoso di ripensare daccapo Piazzolla in rapporto alla danza, entrando in sintonia con la sua musica, per specchiarsi nei suoi cristalli attraverso nouances emozionali affatto didascaliche. La fluidità proteiforme del suo stile è radicata nel gusto per un’essenzialità, non coincidente con il minimale, dove la plasticità dinamica dei movimenti prescinde da qualsiasi effetto decorativo. Come i tanka giapponesi che aspirano a rendere visibile l’inafferrabile, catturando la pienezza delle emozioni in bozzetti impalpabili, gli otto ballerini danzano prestando la realtà fisica dei loro corpi al susseguirsi di movimenti simbolici che hanno una sorta di risonanza metafisica. La danza, che ha impegnato quasi sempre la coralità di tutto il corpo di ballo, disegna forme con un fraseggio ricamato di morbidezze, trasmettendo una specie di calore fisiologico. Gli insiemi prospettici definiscono i volumi con equilibri di pieni e vuoti, dove l’energia è deflagrante proprio perché trattenuta in movimenti morbidi che sembrano condensare la quintessenza di formule rituali impenetrabili.



La cartina di tornasole di questa attitudine alla sottrazione riguarda palesemente l’approccio coreografico nell’affrontare la pulsazione cullante che conferisce una natura di trepidante evocazione al ritmo della milonga campera, più volte apparsa nello spettacolo con quel suo inestirpabile un residuo di latente infelicità. Ma anche quando la musica si avvita in rapidi mulinelli di impeto barbaro, i ballerini non sono chiamati a costrutti acrobatici e la perfezione delle loro figure è ispirata alla stessa sobria eleganza del gusto, da intendersi come l’atto critico esercitato dal coreografo per selezionare le sue scelte tra gli echi di trame culturali, memorie ancestrali, spiritualità sciamaniche che hanno avuto un ruolo fondativo nel modellare l’abbecedario espressivo della danza contemporanea. In questo quadro, mentre la musica di Piazzolla si fa teatro toccando le radici dell’emozione, le coreografie si interrogano evitando costruzioni stereotipate per accarezzare con le loro folgoranti epifanie l’archetipo, invitandoci ad una scoperta. In questa narrazione che incrociando la musica con le coreografie dà luogo a quel “concerto di danza” suggerito dal sottotitolo dello spettacolo, il light design di Carlo Cerri gioca un fattore fondamentale nel garantire compattezza e intensità all’esperienza estetico-sensoriale della messa in scena. Il concerto generale è quello di dividere in due piani le risorse, facendole interagire. Da un lato il fondale retroilluminato che è la fonte monocroma dei colori alternati ad ogni passaggio da un brano all’altro,  intercalando il blu notturno, il rosso vermiglio, un grigio madreperlaceo o il nero che sposta tutto il peso evocativo sull’illuminazione del palcoscenico. 



Quest'ultima è l’altro strumento curato nel dettaglio per mettere a fuoco sia le coreografie che la figura del bandlneonista. E’ il piano in cui agiscono luci a pioggia; panoramiche frontali; controluci che disegnano i corpi dei danzatori come silhouette nere sullo sfondo argenteo a cui accennavo prima; fasci che attraversano la scena posandosi con un effetto caravaggesco, sul fitto quadretto di tutti i danzatori fermi nella posa di ammirare il bandoneonista in azione. In alcune circostanze ai coni di luce si aggiungono pulviscoli fumosi che attraversandoli, introducono un ulteriore elemento suggestivo all’insieme. Quando il sipario si chiude, l’incantesimo che ha catturato il pubblico svanisce fatalmente, riportando tutti, dopo un lento sospiro meditativo, verso il baricentro delle proprie vite reali. Come suggerendo una forma di grato ringraziamento agli interpreti sulla scena e non, l’esperienza emozionale che ha conquistato la platea si è sciolta in un lungo rosario di applausi tutt’altro che d’occasione ma sinceramente spontanei.

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