A Berkeley con Julio



Il catalogo di Julio Cortazar si arricchisce di un’altro tassello a parer mio fondamentale, soprattutto perché di natura diversa rispetto alle altre opere che hanno fatto di questo autore uno dei principali protagonisti della letteratura novecentesca.
Se ci era sembrato di conoscerlo meglio leggendo le fantasmagoriche lettere contenute in “Carta  a carbone” (Minimum Fax, 2013) oppure gli inediti apparsi in “Carte inaspettate” (Einaudi 2012), qui veniamo a contatto con la sua fluida, colorita, acuta dialettica, trascritta nelle registrazioni di un corso sulla letteratura tenuto nel 1980 a Berkeley.
In quell’occasione Cortazar sbarcava nel cuore del mondo accademico statunitense approdando proprio nell’università californiana che con i disordini e l’occupazione del 1964 è stata l’incubatrice  del maggio francese: e forse la scelta non è stata un caso visto che in precedenza aveva rifiutato categoricamente, con pungenti motivazioni antimperialiste, l’invito a ricoprire il ruolo di lettore alla Columbia University.
E l’approccio ai molteplici temi affrontati negli incontri con gli studenti, deve aver avuto un impatto ancor più stupefacente di quanto possiamo percepirlo trentaquattro anni dopo, incarnando prodigiosamente quel rapporto professore-studente che proprio la generazione del 1964 di quell’università reclamava a suon di occupazioni.



Demolendo metodologie didattiche e gerarchie, la scioltezza espressa da Cortazar con una innata eleganza, stringe la platea in una relazione che giorno dopo giorno lega tutti in un’atmosfera imprevedibile. Come è facile prevedersi ne restano esterefatte sia le autorità universitarie che (con giubilo di Julio) quelle del dipartimento di spagnolo,  abituate ad un comportamento esclusivamente formale da parte degli ospiti.  
Il trait d’union degli incontri è quello di un’improvvisazione irriverente e acrobatica, rispetto ai consueti formalismi insiti nel ruolo di docente, e del progressivo allacciarsi di un sentimento di amicizia tra chi non si è mai voluto mettere in cattedra e i suoi interlocutori che di volta in volta vengono chiamati ad interagire, proponendo un fluire di linfa fatta di   analisi, commenti, domande.
Seguendo questa strategia empirica e il suo flusso spontaneo, lo spazio tra il teatro di visioni della letteratura e la realtà della  vita sembra ridursi visibilmente, sfuggendo  al destino dell’effimero.  
Incantati dalla magia delle parole, dalle loro immagini tattili, rileggiamo i contenuti esposti con la consueta piacevolezza di stile che non ha l’ombra di alcuna pedanteria. Nel loro complesso si può ben dire che questi siano il necessario completamento del saggio “La teoria del tunnel” dove viene analizzato il racconto, anche nella forma del racconto breve spesso utilizzata da lui stesso.
Per merito dell’istantaneità della lingua orale leggiamo l’eloquente voce di Cortazar partire da una tesi ed irraggiare le sue riflessioni ai campi amici della letteratura, come ad esempio quello a lui più epidermicamente propizio della musica.
La capacità di tenere fermo il filo del discorso fa si che queste divagazioni non siano viziate da una distanza dal tema principale che le ha evocate, ma anzi agiscano nel loro cuore.



Cortazar ci lascerà quattro anni dopo quella stagione californiana  e prima lascerà un altro tassello indispensabile a conoscerlo ancora meglio: “Gli autonauti della cosmostrada ovvero Un viaggio atemporale Parigi-Marsiglia” (Einaudi, 2012).

Documento dell’ultimo viaggio di due innamorati malati terminali, lui e la sua Carol Dunlop, volontariamente esiliatisi sull’autostrada con il loro camper Wolkswagen T4. Trenta e più giorni per scrivere a quattro mani un tenero, surreale, vertiginoso testamento letterario.

Commenti

Post più popolari