Fabian Bertero e la Big Band dei suoi sogni

Il luminoso lavoro d’esordio della Big Band di Fabian Bertero colpisce per due aspetti essenziali che danno, anche al primo ascolto, una sensazione epidermica di omogeneità, ancorchè il repertorio scelto sia decisamente vario andando da Villoldo agli autori contemporanei, passando per Gardel,  Canaro, De Caro e Piazzolla.  Da un lato è palese l’originale coerenza stilistica con cui si susseguono le tracce registrate; dall’altro incanta la qualità con cui questo ritaglio stilistico è coniugato. L’insieme di queste qualità mette in rilievo l’angolazione con cui sono affrontati i brani, sia quelli originali che quelli tradizionali, nella scrittura degli arrangiamenti e nella loro interpretazione da parte dei componenti dell’orchestra. Il contributo dei musicisti è infatti decisivo per dare vita alla costellazione di dettagli che impreziosiscono ogni brano, comunicando la loro luce emozionante come uno specchio, un riflesso o un ombra. La loro disinvolta naturalezza innesca così il corto circuito virtuoso che favorisce una sorta di fusione tutt’altro che scontata o lineare, tra freschezza, passione e compostezza formale.


Tutto sembra quindi obbedire alle leggi della leggerezza che sono il prologo prezioso e fragilissimo di qualsiasi grazia. In questo orizzonte, la musica riesce ad essere insieme aerea e materica, evocando continue correspondances fosforescenti con una sintassi chiara che Bertero padroneggia abilmente.  Il direttore dimostra la sua sapienza, come  può farlo solo chi conosce gli enigmi posti dal senso segreto e popolare del  tango, palpito di corpi e di anime che rappresenta la vita stessa, sia nella banalità del quotidiano, sia nella profondità dei sentimenti. Realizzando questo perimetro di dense risonanze, la creatività di Bertero investiga la tradizione e ne utilizza gli strumenti per costruire arrangiamenti nella quale si percepisce la vitalità con cui il tango può presentarsi alle orecchie ed ai cuori dei contemporanei. Senza smarrire la fisicità  selvaggia dell’icastica forza primigenia del tango, la musica celebra nel suo gioco di forme, sua la trasfigurazione colta in perfetti particolari estetici: mosaici dove si alternano tessere trasparenti, proteiformi o caleidoscopiche.


Le troviamo sia nelle composizioni originali di Bertero come Vamos viendo, Milonga de la calle, Un decibel (firmato con Raul Garello), come in A Don Leopoldo che il primo bandoneonista della band dedica a Federico, o, ancora, negli arrangiamenti come quelli di Cara sucia, El dias que me quieras dove Bertero ci fa ascoltare un pregevole solo di violino, El choclo, ma soprattutto in un classico di Julio De Caro: quel Tierra querida che aveva già attirato l’attenzione del giovane Piazzolla neo direttore di una sua propria orchestra nel 1945. Quest’ultimo titolo raggiunge lo zenit della creatività proponendo un entusiasmante e continuo giustapporsi di originali riverberi,  onde elastiche danzanti, echi ipnotici o medusèi che mettono a dura prova l’insieme orchestrale senza scalfirne la solidità e la brillantezza esecutiva dei 14 musicisti.


Ma, ogni traccia rivela frequenti momenti di grazia che, in balenanti flashes, sembrano indirizzare la materia sonora della musica verso un nuovo stato: quello di un’epifanica sostanza visiva. Questa sensazione è ancor più nitida quando tra le pagine strumentali emergono i temi cantati che  danno alla danza rapinosa delle immagini  una speciale forza narrativa . Qui, oltre alla voce sicura di Alfredo Pittis, possiamo abbandonarci ai voli fatati della rêverie ascoltando l’intervento di un ospite magico come il poeta e performer Horacio Ferrer. La sua è solo un’apparizione, insieme alla sua celebre e irraggiungibile Balada para un loco, comunque proposta in tre versioni (due come bonus track) a testimonianza di come non si possa rinunciare a nessuna delle interpretazioni di Ferrer.  Tutto questo ha ragione di essere immaginato come la concreta sostanza di un nuovo pensiero con il quale Fabian Bertero può alimentare i suoi sogni futuri.

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